La febbre della missione
Tutto è cominciato così. Tutte le volte che, alla fine di lunghe e faticose giornate di studio, perdevo un po’ di tempo navigando su un famoso social, rimanevo sempre attratta da ciò che pubblicava un amico in particolare.
Panoramiche mozzafiato di città sconosciute; viste affascinanti dall’oblò di aerei con le nuvole là sotto a sfumare in colori incredibili; lunghe prospettive architettoniche di aeroporti anonimi ricchi di persone che corrono in su e in giù. E al centro lui, il mio amico e il suo strano bagaglio. Un piccolo frigo da viaggio poggiato sul suo trolley e ben stretto nelle sue mani.
Tutto questo suscitava in me, giorno dopo giorno, un sempre più intenso interesse su ciò che faceva; al punto che, appena lo incrocia a Firenze, lo fermai, lo misi a sedere al tavolino di un bar e lo sottoposi ad un lungo e simpatico interrogatorio.
Ogni tassello andava al suo posto, tante risposte soddisfacevano le mie infinite domande. Ero felice. Il mio amico, ho scoperto, era sempre a giro per il mondo perché è un corriere, un corriere di vita!
Ero felice ed affascinata, avrei voluto poter fare anch’io ciò che faceva lui e così, il passo successivo fu conoscere Massimo, il direttore del Nucleo che durante un interessante colloquio mi spiegò, in maniera più dettagliata, il suo lavoro e quello che i volontari della sua associazione fanno silenziosamente, ogni giorno in giro per il mondo.
Poi conobbi Patrizia, sua sorella, la responsabile della sala operativa. Una persona, una mente.
Uscii da quell’incontro entusiasta e da lì a poco decisi di provare l’ebrezza di essere anch’io un corriere di vita.
Un’esperienza che mai durante i miei (soli) 25 anni di vita mi aveva sfiorato la mente di fare.
Ne fui travolta da quell’ebrezza. Decisi di dare, nel mio piccolo, una mano, conscia anche che quello era un modo un po’ diverso di fare volontariato rispetto a quello classico, più conosciuto dalla maggioranza delle persone.
Dopo il necessario periodo di formazione ecco la mia prima missione.
Erano circa 2 anni fa quando partii alla volta di Colonia, in Germania dove, accompagnata dal rassicurante maestro Massimo, mi recai a ritirare le mie prime cellule staminali salvavita per poi volare a consegnare, da sola, a Santiago de Compostela in Spagna.
Così è iniziato il mio percorso di missioni; ma un’esperienza su tutte vorrei raccontarvi.
Un’esperienza che mi ha spaventato, ma al tempo stesso rafforzato.
Ero ancora una novellina ad una delle prime missioni; non ricordo bene, forse era la seconda o la terza.
La mia destinazione anche quella volta fu Colonia. Appena arrivata nella città tedesca (era inverno) sentii subito che era molto più freddo rispetto a Firenze.
Da lì a breve, appena giunta in albergo, incontrai Gabor, un collega, volontario anche lui lì in missione e che avrebbe ritirato le sue cellule solo qualche ora prima di me.
In quella fredda sera invernale germanica, dopo essermi sistemata in albergo, passeggiammo un po’ in città con Gabor, tra le guglie che toccano il cielo dell’enorme duomo; negozi e negozietti strapieni di colori e merce di ogni tipo e larghe strade piene di persone.
Nel tardo pomeriggio però cominciai a sentirmi un po’ debole e molto infreddolita, ma non detti troppo peso alla cosa e proseguimmo la nostra passeggiata.
Ci fermammo a cena in un ristorantino confortevole. Gabor ordinò una cotoletta alla milanese con patate fritte, “wiener schnitzel mit kartoffeln” come la chiamano da queste parti.
Mi sentivo disturbata di stomaco ma, golosa come sono, guardavo famelicamente quel suo piatto. Ero colma del desiderio di mangiarlo; era così enorme; spaventosamente enorme.
Ed invece fui costretta ad ordinare solo un triste the caldo che non riuscii neanche a finire.
Sarà stata quella mia improvvisa mancanza d’appetito, saranno stati i fumi caldi e profumati di quel the, fatto sta, che fu, in quel preciso momento, che ebbi netta la sensazione di essere febbricitante.
A cena Gabor parlava. Fingevo che niente fosse, ma la sua voce mi giungeva sempre più ovattata, la sua immagine sempre più sfocata…
Nel tornare a piedi verso l’albergo con la testa in giostra gli confessai che non mi sentivo per niente bene.
Anche lui si spaventò, avendo ben presente che l’indomani mi attendeva la missione: ritirare le cellule e poi volare in aereo verso la consegna in Spagna.
Così andammo subito in farmacia a comprare un termometro e un antipiretico.
Appena rientrati in albergo, ognuno verso la sua camera, mi misurai subito la temperatura.
Dopo un’attesa che sembrò lunghissima, guardai con timore le tacche del termometro che sentenziò: 39 e mezzo!
Panico! Agguantai il telefono sul comodino e chiamai subito Patrizia in sala operativa. Lei riuscì con le sue parole giuste a rassicurarmi. Venne anche Gabor a portarmi un maglione da mettermi addosso. Mi addormentai, distrutta dalla febbre, col pensiero che il giorno seguente sarei dovuta stare bene perché la missione mi attendeva.
La notte fu però infinita e tormentata. Mi svegliavo continuamente, mi giravo e rigiravo nel letto, sudavo. La febbre restava alta, la sentivo che mi stava fiaccando. Crampi allo stomaco, gambe a pezzi, occhi rossi. Una debolezza infinita e, come se non bastasse, continue scariche mi costringevano in bagno.
I miei pensieri sembravano incubi. Sapevo solo che dovevo riposarmi, stare tranquilla. Il giorno dopo avevo la missione.
Mi aspettavano molte ore in piedi e a malapena a sedere, fra ospedali, metropolitane, treni, aerei e taxi.
Ce la dovevo fare! una vita mi aspettava per rinascere! La mattina mi alzai dal letto distrutta, ma certa che ce la dovevo fare!
Mi alzai e un po’ barcollavo. Debolezza, pensai; non avevo neanche cenato la sera precedente.
Mi vestii pesantissima. Maglie e felpe sovrapposte a strati, compreso l’enorme maglione di Gabor. Partii.
Fu quella una delle giornate più difficili e pesanti che ho affrontato in vita mia!
Patrizia, Nadia e Massimo mi chiamavano continuamente dalla sala operativa. Mi facevano sentire che erano lì con me. Ero comunque spaventata dalla sola idea che avrei potuto non farcela.
Ce la misi tutta. Raccolsi tutte insieme le poche energie che avevo e, dopo una giornata incredibile che non dimenticherò mai, portai a termine la mia missione.
Sfinita. Solo questa parola può rendere l’idea di come mi sentivo appena, aperta la porta della camera, mi buttai letteralmente sul letto.
Sfinita nel corpo e nella mente. Ma felice e soddisfatta.
Ero appagata; le mie membra riuscivano a rilassarsi, il mio sorriso ad aprirsi muscolarmente in un piccolo sorriso liberatorio.
I miei sforzi non erano stati vani. Ce l’avevo fatta, anzi ce l’avevamo fatta nonostante tutto.
E dico ce l’avevamo fatta non a caso. Sentivo di far parte di una squadra forte che, anche se sei in missione, lontano da casa, da tutto e tutti, solo per il mondo, non ti fa mai sentire neanche per un secondo veramente solo.
Il Nucleo serve per capire noi stessi. Per cercare la forza dentro di noi. Quella che ognuno ha anche se ignora di averla.
Questo nostro volontariato che io definisco diverso, in realtà è solo speciale.
Pazienti, familiari e donatori, noi corrieri di solito non li vediamo e non li conosciamo.
Ma siamo dei puntini che si muovono per loro. Che uniscono il punto A al punto B.
Tutto ciò è appagante. È splendido. È gioia.