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Spartaco S.

Sono volontario del Nucleo Operativo di Protezione Civile da ormai parecchi anni. Non ho molti servizi alle spalle ma ognuno di quelli svolti è stato particolare e curioso per vari aspetti, o almeno lo è stato per me.

Il  ricordo va alla prima volta che sono andato con l’equipe medica per un espianto osseo. Ero ancora in formazione per imparare a gestire questi interventi, e pertanto la mia esperienza era molto ridotta. Il mio amico, nonché formatore, mi disse che, se mi fossi sentito tranquillo e rilassato, sarei potuto entrare per la prima volta in sala operatoria, per vedere lo svolgersi delle operazioni e capire i tempi, così da imparare a gestire i vari passaggi logistici.

 

Entrato nello spogliatoio fui informato di come dovevo vestirmi e cosa fare (o non fare) una volta varcata la soglia della zona sale operatorie. Mi sentii a mio agio… fino a quando non fu il momento di entrare direttamente nella sala operatoria in cui eravamo destinati. Mi fu detto che dovevo indossare la mascherina su naso e bocca; a causa della mia claustrofobia cominciai a preoccuparmi; avevo paura di non respirare. In quel momento mi chiamò il medico… si iniziava! D’improvviso la passione passò. Fu un’esperienza bellissima e mi sentii veramente importante, della serie “io c’ero!”. Il mio amico mi seguiva continuamente con lo sguardo; fui molto attento a fare ciò che dovevo e nella maniera in cui mi era stato insegnato, ma ero anche molto attratto dal lavoro dei medici. In particolare dovevo seguire tutto il lavoro dei medici e capire, a seconda delle operazioni in corso, a che punto eravamo dell’interevento e quando erano i momenti per informare il coordinamento, piuttosto che far partire la biopsia ecc. Ricordo che quando rientrammo, lungo il tragitto, costrinsi il medico a mille spiegazioni.

In questi anni ho anche avuto l’opportunità di effettuare missioni all’estero. Al di là della destinazione, il rituale è sempre lo stesso: partenza dall’aeroporto e poi giri con il contenitore frigo tipo pic-nic, sembra quasi una gita… ma poi prendi in consegna il materiale biologico e, conoscendo l’importanza di quello che trasportiamo e la sua funzione salvavita, sei in tensione e porti il contenitore come fosse una borsa di gioielli. A me viene l’istinto di guardarmi sempre intorno con circospezione e non la lascio mai, per nessun motivo! Pensate che, più di una volta, mi è capitato di correre all’aeroporto con l’ansia di chi partecipa ad una finale da coppa del mondo. Non mi sento tranquillo fino a quando non entro in aeroporto e, successivamente, non consegno in ospedale. Mi viene in mente una delle ultime volte che dall’ospedale, in Germania, mi consegnarono con notevole ritardo le cellule staminali che aspettavo di prendere in consegna e destinate ad un giovane paziente italiano. Feci una corsa a perdifiato per arrivare in tempo per prendere il volo; prima corsi per arrivare al taxi, che si trovava nella parte esterna all’ospedale, distante qualche centinaio di metri, e poi all’aeroporto per passare dal terminal del check-in a quello delle partenze. Arrivai al gate di imbarco tutto trafelato, sudato e stanco morto e, dopo aver passato i controlli di sicurezza, non ebbi neppure il tempo di rilassarmi per un attimo che già il mio volo imbarcava. Quindi via! in volo verso l’Italia… si torna a casa! All’aeroporto di arrivo mi aspettava una delle nostre macchine di servizio che, in gran fretta, mi portò all’ospedale. Qui, come sempre, un’esperienza bellissima: speciale per ciò che fai, perché hai la consapevolezza di contribuire a qualcosa di unico per qualcuno che non conosci e non conoscerai mai; ma vivi quelle ore in simbiosi con lui, nella speranza che tutto vada per il verso giusto. E gli auguri in cuor tuo: in bocca al lupo amico mio! ti sono vicino!

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