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Nadia F.

Francoforte-Barcellona. Il debutto europeo.

È un suono monotono, noioso e arrogante quello della sveglia; quello di tutte le sveglie, che ti fanno ben capire come mai, la mattina, uscendo per strada, è facile incontrare sguardi bassi che grugniscono a fatica un buongiorno ventriloquato. Quella mattina, non so perché la sveglia l'ho fatta suonare lo stesso, anche se ero certa che mi sarei svegliata ben prima di lei. Ero certa che quella notte sarebbe stata come quelle che precedono il giorno del compito in classe; dormi poco e male, con i sogni che danzano freneticamente con le emozioni che ti aspetteranno l'indomani. E così è stato.

Quella mattina tanto attesa ho spalancato le palpebre sul mondo ancora prima degli uccelli più mattinieri, che in quelle aurore ancora di primavera annunciano l'estate alle porte.

 

In effetti è davvero un primo giorno di scuola quello che mi attende. La prima missione da corriere internazionale di cellule staminali, in cui comunque Massimo, il mio rassicurante tutor, mi avrebbe preso per mano, accompagnato al banco di scuola e preparato per il compito prima di lasciarmi fare la lezione da sola.

Mentre Firenze, frenetica come ogni mattina, corre fra appuntamenti di lavoro, la mia meta è l'aeroporto e un volo per Francoforte. La città dell'euro sarebbe stata il luogo del mio battesimo. Quella valigia rossa e blu che il Nucleo Operativo di Protezione Civile Logistica dei Trapianti aveva donato ai suoi volontari il precedente Natale adesso era lì, appoggiata sul parquet dell'ingresso di casa. Quante volte ci ho girato intorno, guardandola e riguardandola con maniacale frequenza, per controllare se tutto c'era, tutto era giusto, tutto era pronto. Avrò messo dentro la giusta quantità di cambi d'abito? Avrò preso lo spazzolino da denti, il pigiama e quant'altro? Il girotondo è continuato per un giorno intero, quello prima della partenza. Adesso non c'è più tempo; la valigia è lì, chiusa e allungata nel suo manico in cui, incastrato e ben impilato a misura, è il magico bianco contenitore di vita, pronto per volare con me, per la prima volta, in Europa.

Eccoci in aeroporto con i biglietti aerei in mano, appena stampati da Massimo alla macchinetta automatica del check-in. Niente più tempo per ripensamenti e insicurezze; l'imbarco è prossimo e in quell'aeroporto, in cui mi brulicano attorno moltissimi passeggeri in arrivo e in partenza, vedo solo fantasmi senza volto. L'emozione e la concentrazione mi allontana da loro, dai loro sguardi, dai loro gesti, dai loro atteggiamenti, dalle loro vite. Solo quello che siamo noi e cosa devo fare m'importano. Gli altri sono viaggiatori dell'inutile.

Prendiamo posto sull'aereo. Dal finestrino filtra tagliente come la lama di un serramanico la luce di mezzogiorno ad illuminare tutti i fogli di servizio che Massimo, durante il volo, mi ripassa. Ci sono tutti: quello con le istruzioni per arrivare al centro prelievi, quello con tutti i numeri della conta cellulare e dell'anticoagulante richiesto, il foglio della prenotazione alberghiera, quelli da consegnare al centro trapianti, la strada per arrivarci, la prenotazione aerea per l'altra città. Guardo, cerco di memorizzare tutto per distrarmi anche e vincere così quel fastidio al volo che mi trascino dietro da anni. Chiedo, faccio domande, approfondisco per non farmi trovare impreparata e per distrarmi al decollo. Siamo già lì, in fondo a quella corta pista di Peretola che a una persona terrorizzata dall'aereo fa ancora più impressione. L'uccello a motore si muove piano, poi ruggisce sul fondo pista, si posiziona per il decollo piroettando su se stesso. I motori accelerano il loro urlo, rombano salgono di decibel e poi via, sei incollato alla poltrona e si va, alzandoci sopra l'autostrada. A sinistra vedo nitida la cupola del Brunelleschi, vedo la mia città dall'alto che pare salutarmi augurando buona fortuna; poi l'aereo vira lasciando distinguere l'Arno e il parco dei Renai, poi la campagna toscana e si va sempre più su, in alto, fino a che quasi non distinguo più niente laggiù in basso, dove il sole di quella giornata d'aprile sfoca l'immagine della terra in una nebbiolina nebulizzata d'aria biancastra.

Il tempo passa veloce in volo, fra i sorrisi rassicuranti di rito delle hostess e il parlottare dei vicini, tant'è che, sarà la frenesia di quel giorno, saranno le chiacchiere e il ripasso della lezione, sarà la voglia di farcela, che arriviamo a Francoforte in breve e con un atterraggio che non mi fa salire lo stomaco e non mi da tempo di averne paura.

Scendiamo i nostri trolley gemelli, stretti in mano risuonano il loro passo ritmato sul pavimento di quell'aeroporto per me nuovo e sconosciuto, in cui le scritte nere su fondo giallo in cui cerco di orientarmi non disperdono nel cammino. “Devi cercare l'indicazione per la stazione” dice Massimo “dobbiamo prendere un treno che da qui ci porterà in centro città”. Treno, stazione... penso. Railway in inglese e Bahnhof in tedesco; questo lo so! Guardo su in alto: taxi, exit, gate... Seguo con gli occhi e il passo indeciso quelle che indicano Railway – Bahnof. Ecco, ho trovato! Ma c'è l'inganno per me. Due binari paralleli lì sotto ad attendermi; quale prendere? Come distinguere fra i due quale sarà quello per la mia direzione. Massimo mi rassicura dicendo di prendermela con calma. “Dipende da te adesso” dice. Lui lo sa; quante volte avrà già camminato in quel dedalo di corridoi e binari e, sornionamente adesso, mi mette alla prova.

Non so come, ma decido di giocare d'istinto, non riuscendo a leggere niente in quei cartelli in tedesco, immagino con i nomi delle stazioni intermedie, o forse quelle scritto sono in inglese? Non so. Nel momento dell'interrogazione mi emoziono e sbaglio. L'istinto mi dice di scendere la rampa giù a sinistra. Guardo Massimo per leggere nel suo sguardo un assenso o un dissenso, ma lui fingendo indifferenza mi segue. Solo quando siamo lì, sul quel binario, mi fa notare con calma che ho sbagliato e che errore ho fatto. Una calma che rassicura, che fa capire al volo che non è successo niente di irrimediabile, ma che ti corregge per il futuro. Risaliamo la rampa, scendiamo quella giusta e ci avviamo verso la biglietteria automatica, dove avrei davvero problemi a capire che biglietto fare dato che le opzioni sono tutte, rigorosamente, solo in tedesco; e credo che le mie stesse esitazioni le abbiano anche due giovanissimi immigrati indiani che si rivolgono a Massimo per un aiuto in uno stentato inglese, vedendo la sua sicurezza.

Il treno infila un sentiero di boschi timidamente verdi lì al nord. Boschi dritti, rigorosi, slanciati, quasi perfetti e allineati come soldatini all'alzabandiera, che mi fanno subito intuire che quella è la Germania; mai visti in Italia boschi così perfetti. Anche per la fermata Massimo decide di far scegliere a me, e ancora sbaglio. Presa dall'emozione non identifico la fermata giusta e lui, all'ultimo tuffo, con un balzo scende e butta giù anche me. Inizio male penso. Che idea si farà di me? Mi farà davvero fare la missione? Mentre penso, mi faccio rapire dalle linee di quella grande stazione, dalla sua severa cupola di vetro e ferro inizio novecento, che apre le porte su un enorme piazza di pietra, candida di colore e pulizia, su cui pesticciano, in ogni direzione, gambe di uomini d'affari in giacca, cravatta e computer sotto braccio. Banchieri, penso, a quest'ora escono dalle riunioni della banca europea. Alzo gli occhi; dritti e rigorosi palazzi perfetti nelle geometrie aprono la visione di una città moderna e poi eccole, là dietro, spuntare le torri moderne, i grattacieli vetratissimi dei grandi palazzi, dove si giocano i destini dei nostri portafogli. Il nostro albergo è lì a un passo, basta attraversare la strada; “comodo” dice Massimo “perché vicino al centro città e alla fermata del bus per il centro prelievi”. In albergo giusto il tempo di appoggiare le valigie. Forte è la voglia di scoprire la città.

Usciamo verso la metropolitana, che mi stupisce per non essere come tutte le altre del mondo. Qui, dopo aver fatto il biglietto, non devi introdurlo nelle porte con le mani di ferro che ti bloccano se non paghi. Penso ancora che questa è la Germania, non c'è bisogno di controllo, tutti sono rigorosi e perfetti. Direzione Duomo ma, dice Massimo, “non ti aspettare chissà cosa, e sopratutto non ti aspettare turisti davanti, perché non ce ne sono”. Salendo in superficie vedo una bella cattedrale gotica, scura nella pietra, slanciata verso il cielo con i suoi pinnacoli, ma curiosamente tozza nella costruzione. Mi appare davanti inattesa, sull'angolo di una piazza quasi deserta, come annunciato. Solo una coppia di turisti orientali di mezza età è lì con il naso all'insù, ad ammirare le guglie, dietro l'obbiettivo dell'immancabile macchina fotografica, a quelle cinque del pomeriggio. Davvero strano penso; non c'è quasi anima viva davanti a quel duomo a metà pomeriggio di una bella giornata. Basta girare un paio di strade però e andare verso il fiume per trovare lì i cittadini di quella città. Un bel fiume largo con tutt'intorno, sulle due rive, un grande parco dove si parla, si mangia, si amoreggia, si fa jogging e ci si lascia baciare da quel sole primaverile, ancora freschino per noi abituati ad altre latitudini, ma quasi estivo per quel popolo con le gambe bianche come mozzarella. Giriamo ancora due o tre strade, sempre stranamente vuote, e troviamo l'altro luogo di elezione dei cittadini di Francoforte; una grande e larghissima strada commerciale. Una striscia dritta di pietre bianche ordinatamente incastrate e separate nelle due corsie pedonali da rachitici alberelli che tentano di riparare panchine e fioriere, ottime per una birra in compagnia. Insegne di mille colori, luci e ammiccamenti mi proiettano a una lunghissima fila di marchi, boutique, centri commerciali e megastore di elettronica e lì, al centro della via, una curiosa costruzione che Massimo mi indica. Un palazzo tutto di vetro che si chiude in se stesso a spirale, un enorme mosaico di specchi, un labirinto, uno scherzo urbano. Dove e come entra ed esce quella spirale nella costruzione? Come gira su se stessa, come si incunea nel centro della costruzione, dove le scale mobili che salgono e scendono aumentano l'inganno? I tedeschi di Francoforte vivono qui: sul fiume o nella strada commerciale. Del Duomo e dell'altra bella ed elegante piazza ricca di tipiche case dai tetti appuntiti e le facciate arzigogolate, di tipico rigore tedesco, sono quasi deserte e si animano solo vicino all'ora di cena per i tanti ristoranti, forse gli unici che il centro città schiude. Anche noi mangiamo qui all'aperto: stinco di maiale e birra Weiss. Cosa c'è di meglio per farsi dare il Wilkommmen? La voglia di andare a letto ancora però non c'è e Massimo, un tiratardi virtuoso della buona tavola e del buon bere, decide d tornare verso l'albergo in tram, dove una grande birreria angolare, arredata in stile gasthaus, ci accoglie per la birra della buonanotte, dopo aver percorso in tram un tratto che, oltre il riflesso dei pochi passeggeri stanchi e mezzi addormentati, schiudevano la città della notte a luci rosse, visibile nelle sue luci decise, ma poco caciarona e molto riservatamente Deutsch.

La mattina seguente la sveglia è alle 7. Mi faccio trovare pronta, “colazionata” e con un senso misto d'euforia e preoccupazione. L'aria fuori è fresca e frizzante; il bavero va alzato alla fermata del tram, dove oltre a noi è in attesa solo una signora di mezz'età, ansiosa sul marciapiede. “Sono cinque fermate da contare” dice Massimo “noi dobbiamo scendere qui” dice indicandomi la mappa sulla parete del tram. Eccoci, come scritto nelle istruzioni: “scendi, attraversi la strada, vedi una grande struttura bianca e vetrata di fronte, dove sopra c'è scritto Blutbank. Entra lì salendo la scalinata”. Una sala d'aspetto a semicerchio, lucidissima e profumatissima di pulito, apre un ambiente luminoso, dove le persone aspettano con serenità il loro turno per donare. Gentilmente, anche a noi offrono un caffè e, dopo una brevissima attesa, proprio quel signore che era dietro il banco della reception ci viene incontro e prega Massimo di aspettare lì il suo turno. Parole, le sue, scandite, quasi metronometrate, a cui Massimo, con carineria e decisione, risponde “no vengo anch'io, perché per lei è la prima volta e la devo aiutare”. Uwe, così si chiama quel medico, me l'avevano già goliardicamente descritto gli altri volontari: bravo, puntuale nelle consegne, ma un po' strano e con una strana mania di volerti per forza chiamare il taxi alla partenza. Prima lavorava a Dresda, mi hanno detto, e con Massimo si conosce da tempo, rispettandosi ma tenendosi a distanza. Uwe, alto, magro, con occhiali sottili di una montatura appena accennata sopra il naso e i baffetti, nella sua candida bianca divisa, si dirige un po' stizzosamente verso una porta, con passo militare. Entriamo; piccole salette trasparenti lasciano intravedere, sdraiati sui lettini, gli angeli che donano la vita. Nel resto di quest'altro mezzo cerchio, che forma quel primo piano, tanti macchinari moderni, tante altre salette separate e lo spazio dove, con rigore ed efficienza quasi meccanica, Uwe mi consegna le sacche, leggendomi codici, indicandomeli con la penna sulle sacche stesse e scandendo ogni  parola con decisione e precisione, cantilenando in un perfetto inglese. Confeziona i sacchi, gli posiziona con cura nella mia borsa frigo e solo alla fine, aprendosi in un sorriso nordico, mi allunga una biro bianca e rossa con una croce rossa e la scritta Deutche Blutbank, dicendomi: “it's one gift for your first time”. Gli ricambio il mezzo sorriso per non scompormi troppo e svelare le palpitazioni che ritmano con frequenza regolare nel mio petto. Attendo che anche Massimo abbia preso in consegna la sua sacca di vita e, dopo aver afferrato con una forza sproporzionata trolley e frigo, ci avviamo all'uscita. Stesso tram e stessa direzione. Proseguiamo per una stazione di periferia da cui riprenderemo il treno che taglia il bosco per l'aeroporto. Lì ci divideremo: io Barcellona e Massimo a La Coruna. Entro, guardo il display cercando il mio volo e corro verso il gate. Senza volerlo ne accorgermene il mio passo si affretta e si allunga su quello di Massimo che, pacato, mi segue a distanza sempre più lunga mentre parla al telefono. Ma dove corro, mi domando. Ho tempo per il mio volo, ho tempo mi ripeto, ma l'ardore e l'emozione mi mettono le ali ai piedi e anche se la testa vuole rallentare le gambe proprio non riescono a farlo. Massimo mi raggiunge con il suo passo costante e la telefonata finita. Sorridendo mi dice, vedendomi un po' affannata e sudata: “c'è tempo, c'è tempo...” ma forse ha capito cosa mi ha fatto correre e lascia perdere. Mi ripassa la lezione ancora, per l'ultima volta e, metaforicamente, mi accompagna fin dentro l'aereo col suo saluto e le sue raccomandazioni. Vado, m'imbarco, il cuore in gola fa bum bum, che emozione!

Di quel decollo e il successivo atterraggio in terra catalana ricordo davvero poco. Che strano. Forse ho dormito dalla tensione, con quelle cellule strette fra i miei piedi; forse ho dormito perché crollata dalla stanchezza da quelle notti di poco sonno e tanta emozione, o forse ho dormito per riposarmi e caricarmi di nuova energia, prima dell'impegno più grande della mia vita, che mi attenderà appena sbarcata a Barcellona. Ora sono sola; il mio tutor è volato verso un altro malato in attesa di speranza, devo fare tutto io. Scendo dall'aereo in terra catalana. So a memoria che devo uscire dal terminal, cercare il bus per il centro città dove, da Plaça Catalunya, raggiungerò la vicina Plaça Urquinaona dov'è la metro che, dopo alcune fermate, mi condurrà al centro trapianti per la consegna. Il passo si fa progressivamente sempre più frettoloso, la mano stringe fortissimamente quel frigo, al punto da farmi dolere anche il polso. Ecco il bus. Salgo e mi accomodo a sedere con il frigo ben abbracciato a me e poggiato sulle ginocchia. Guardo l'orologio, sono in perfetto orario; squilla il telefono. È la sala operativa che mi chiama, per farmi sentire che non sono sola, mentre un gruppo di ventenni spagnoli in vacanza, osservandomi insieme al mio strano bagaglio, si toccano col braccio smettendo improvvisamente di parlare a voce alta, quasi per non disturbare le cellule che riposano. Sono concentrata. Sfilo per l'ennesima volta di tasca la mappa con il tragitto da compiere, la guardo e la riguardo, rigirandola su se stessa mille volte. Plaça Catalunya. Mi precipito giù dall’Aerobus, guardo su; ecco l'angolo con i grandi magazzini El Corte Inglés. È qui che devo andare dritto, nella vicina piazza dove inquadro subito l'insegna con il rombo rosso e la emme bianca che indica la metropolitana e mi lancio a rotta di collo giù per le scale. Conto le fermate e scendo dove devo. Un rettilineo di anonima periferia mi fa scavallare alcuni incroci, poi ecco i giardini indicati dalla mappa e in fondo, il grande edificio che riconosco dalla foto. Ci sono! Lì, in fondo la sbarra di quello che sembra un garage, ma che, mi avevano avvertito, essere invece il cuore pulsante del Banco de Sangre, la banca del sangue. Scendo entrando nel buio e rimanendo quasi accecata dal contrasto col cocente sole spagnolo delle due del pomeriggio. Dietro il bancone minimalista di un legno leggero un annoiato signore di mezz'età che, capendo chi sono, chiama subito due giovani dottoresse che arrivano in coppia, muovendosi come due nuotatrici di danza sincronizzata. Entrambe more, alte, ricciolute, dal volto simpatico e gli occhi sorridenti; traspaiono emozione anche loro mentre allungano le mani quasi ad abbracciare me e il mio frigo. Consegno tutto: cellule e documenti, congedando le dottoresse e l'annoiato receptionist con un radioso, ma frettoloso saluto, quasi per nascondere l'emozione. Salgo e vedo la luce, non solo perché sono uscita dal buio di quello specialissimo garage. Mi sento felice! di una felicità speciale, leggera, di una leggerezza speciale, e solo ora avverto che ho sete, mi scappa la pipì e che quelle gocce che mi scendono lungo la schiena altro non sono che il sudore che mi ha accompagnato dall'aeroporto al centro trapianti. Cammino e avverto i muscoli del mio volto distendersi, mentre la bocca si apre in un sorriso radioso. Sorrido da sola, di una gioia strana e mai provata, che riempie il cuore in quella anonima periferia catalana, dove anche l'erba fresca si muove allegra nel grande prato alla mia destra, quasi a condividere la mia felicità. Ora vado in centro e voglio vivermi la città; è tanto che non vedo Barcellona. Adesso la vedo bella ed unica. Scelgo di ammirarla, oltre che nei tradizionali percorsi turistici che mi stonano in quella giornata speciale di un viaggio speciale, da una visione insolita, quella del Parc Guell. È lassù, in posizione un po' defilata, fra quelle costruzioni fiabesche, arcobalenate e sinuose che spuntano nel labirinto di un parco singolare, che trovo il mio luogo perfetto per respirare a pieni polmoni quella gioia nuova, apertamente. Sono come quelle costruzioni di Gaudì adesso: allegra e piena d'arcobaleno. Vado sul grande terrazzo che domina la città. Come d'incanto mi si smaterializzano da davanti quel brulicame di turisti, mentre abbraccio idealmente Barcellona che mi ha appena battezzato corriere internazionale di cellule staminali.

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