Verona - Roma: un treno di speranza
Uggia novembrina, leggera brezza surgelata che aiuta gli occhi a spalancarsi dimenticando morfeo. Sembra un mattino qualsiasi di mezza settimana d'inizio inverno come tanti, ma non è così per me. È speciale e non profuma solo di pane fresco e caffè.
È la genesi di qualcosa che mi porta via da un ufficio triste, imbronciato e puzzolente di toner, ma non è l'evasione del momento o la fuga da una realtà che azzera; è l'inizio di qualcosa che, ho ben chiaro, mi porterà molto lontano come essere umano.
Massimo arriva con l'auto di servizio lucida di quel pulito che sa di cura e attenzione; mi viene incontro con il sorriso deciso e quei capelli scompigliati dal vento che lo caratterizza anche senza brezza.
Partiamo direzione Verona. L'autostrada apre la sua lingua d'asfalto tagliando sull'orizzonte un'alba grigia appena accennata. Gli Appennini, poi Bologna, la pianura e poi ecco Verona presentarsi, con l'accompagnamento di Massimo che, da buon tutor, per tutto il viaggio, pacatamente, ma con precisione apparentemente banale, fa il ripasso al suo nuovo allievo di tutto ciò che, da lì a breve, per la prima volta avrebbe dovuto fare.
Solo quando vedo davanti a me quell'edificio squadrato e iperfinestrato con l'insegna “ospedale” mi accelera il battito. L'emozione sta facendosi sentire e quel tepore ascendente che dalle gambe sale pizzicandomi la schiena certo non è causato da quel solicello tiepido che, sgomitando fra le nuvole, cerca di farsi strada verso le Alpi.
Siamo arrivati. Massimo s'incammina verso il portone principale d'ingresso e, nel seguirlo dietro di un passo, mi accorgo che anche la sua camminata e i suoi gesti sono precisi, attenti e solo apparentemente banali. Vederlo rassicura: cartelletta bianca con i documenti di servizio ben riuniti nella mano sinistra e nella destra, con impugnatura decisa, quel piccolo e fino a quel momento strano cubo bianco rigido con coperchio e manico azzurro dentro cui, da lì a breve, sarà custodito un prezioso carico.
La porta dell'ospedale spalanca un via vai di gambe frettolose e pensierose, colori e facce di ogni età che vanno avanti tra uffici, ambulatori, casse automatiche e laboratori d'analisi. Noi prendiamo a sinistra, scale su a un mezzanino, poi ancora scale giù verso l'altro lato, al fianco della macchinetta automatica per il caffè, poi ancora una curva e, dopo quel dedalo di corridoi ecco, inattesa, una porta automatica spalancare davanti a me un mondo diverso. Fuori il bianco consunto di corridoi troppo camminati e, oltre la linea di demarcazione, un mondo in antitesi, fatto di pavimenti e pareti verdi, lucidi e profumati di disinfettante.
Due donne di diversa età e statura ci accolgono sorridendo dentro una divisa monouso verde, come le pareti e cuffiette in testa, che, a fatica, riescono a trattenere capigliature che intuisco lunghe e ben pettinate. Il loro gesto del “prego accomodatevi” è quello delle buone padrone di casa, ma tutt'intorno è il candore di una realtà sterilizzata illuminata dal neon e non il tiepido caldo di plaid appoggiato su una poltrona vicina al camino.
Una mensola candida come scrivania d'appoggio; Massimo apparecchia i fogli di servizio, pieni di numeri che fino a pochi minuti prima ignoravo ma che adesso mi sforzo di apprendere e memorizzare il più velocemente possibile. Ancora gesti semplici, pacati, decisi, concreti e poi… un nido di plastica trasparente-opaco con numeri e codici a barre che lascia intravedere il suo rosso contenuto di vita passa dalle mani di una delle due dottoresse a quelle di Massimo. Mani che afferrano e proteggono quella sacca con la stessa dolcezza e cura con cui la madre prende in braccio il suo piccolo. Mani che lo depositano dentro lo scrigno refrigerato dopo averlo avvolto in una coperta di panno assorbente e protetto da alcuni azzurri panetti di ghiaccio che servono a mantenere una temperatura controllata: fra i 4 e i 6 gradi.
Da allieva scruto con attenzione tutte le mosse perché, da lì a poco, quel piccolo frigo pieno di vita sarà affidato alle mie di mani. Sono alla mia prima missione di corriere di cellule staminali e midollo osseo per trapianto; tutto mio l'onore e l'onere di consegnare nel più breve tempo possibile quel carico di vita a Roma.
Salutiamo le due dottoresse che ci congedano con lo stesso sguardo di preoccupazione ed orgoglio con cui un genitore guarda il figlio ormai adulto uscire di casa. Di nuovo corridoi, scale e porte, e via, con passo deciso, verso l'auto di servizio: c'è un treno da prendere al volo alla stazione.
Massimo in auto, mentre la sirena suona come un allarme di responsabilità per me, brevemente mi ricorda tutte le mosse che dovrò fare. Il telefono che traccerà le mie mosse c'è, i fogli di servizio ci sono, le istruzioni e indirizzo dell'ospedale anche; tutto a posto. Stazione di Verona, vedo il regionale che mi porterà a Padova dove poi il treno ad alta velocità sarà il mio autista verso la capitale.
Una pacca rassicurante sulla spalla da Massimo e poi gli volto le spalle, fingendo una decisione che non ho, e vado dritta al treno. Salgo, mi siedo precaria sulla punta della poltroncina per non sentire quell'inconfondibile odore di treno pendolare che si fa ancora più acre fra quei sedili quasi vuoti, sospinto dalla brezza che s'infila dallo spiffero di un finestrino. Un asmatico fischio e lo sferraglio arrugginito della frenata annunciano la stazione di Padova. Scendo rapida, passo deciso verso il binario che ho memorizzato, sottopasso giù, sottopasso su ed ecco l'inconfondibile muso allungato del treno ad alta velocità che arriva da Venezia. Salgo e, dopo aver trovato il mio posto, mi siedo e posiziono fra le mie gambe il prezioso frigo. Sposto i piedi, allargo e stringo le gambe per trovare la posizione giusta e mi rendo conto che ciò che cerco non è la mia comodità ma quella delle cellule che riposano, protette e strette fra i miei polpacci.
Mi rilasso allungandomi un po' sulla poltrona, sicuramente più linda di quella del treno precedente; il battito rallenta la frequenza, il respiro torna regolare e solo vedendo sfilare dal finestrino le persone che salutano, le case della periferia e poi la campagna veneta sono certa che la via per Roma è quella giusta.
Bisbigli di giovani turisti giapponesi che sorridono ammirando i cappelli made in Venice appena acquistati davanti a me a sinistra; un uomo d'affari elegante nel suo gessato parla animosamente al cellulare digitando con forza sul computer che lo illumina di un riverbero mefistofelico davanti a me a destra. Poi, seduto proprio di fronte, un giovane ed efebo sacerdote; lo osservo, non so perché ma quella figura mi rilassa per quel sorriso disteso di una vocazione appena sbocciata, quel breviario poco consunto a cui fa da segnalibro un dito della mano e quella tonaca così desueta altrove ma ancora così fortemente presente nel cattolico Veneto.
Fuori dal finestrino la campagna umida sfuma verso un cielo dipinto dal grigio delle giornate in cui il sole gioca a nascondino con le nebbie padane. Lunghi, esili, geometrici faggi scorrono veloci contornando un infinito orizzonte di campi ordinatamente coltivati e poi all'improvviso acqua, tanta acqua. Sono i dintorni di Vicenza, affogati in quei giorni da una devastante alluvione che si palesa con la visione di inutili sacchi di sabbia a tentar di contenere quello che doveva essere un argine. Osservo col naso stampato sul finestrino alcune schiene anziane ricurve sul fango a cercare di salvare il salvabile. Il finestrino mi riflette anche l'ombra del sacerdote allungato con lo sguardo verso l'esterno con un'espressione di sincero dolore. Intuisco che è nativo della zona e non perché da una sua breve telefonata capto il tipico accento cantilenante, ma perché vedo le sue scarpe nere frettolosamente pulite che lasciano spuntare dalla suola croste di fango.
Ma il mio sguardo, se scende verso il basso, ha occhi solo per quel prezioso frigo che i miei piedi e i miei polpacci stringono sempre forte e lo faranno fino a Roma con la stessa intensità. La sera scende veloce sull'orizzonte d'inverno e il panorama si spenge su un tramonto rosa appena accennato che accende luci che si rincorrono in perenne gioco fra loro sul finestrino. Intanto i giapponesi continuano educatamente a parlare sottovoce e a scattarsi foto, l'uomo d'affari a digitare sempre più nervosamente sulla sua tastiera e il giovane sacerdote apre un piccolo notes su cui prende ordinati appunti inchiostrati di stilografica.
Roma si annuncia con la sua anonima periferia, poi il Tevere, le borgate con i panni stesi alle finestre e le colonne millenarie dell'Impero annunciano la stazione Roma Termini.
Scendo dal treno facendomi largo sul marciapiede fra spalle anonime frettolose, col sottofondo dei din don che annunciano i treni. Alzo lo sguardo, cerco le indicazioni per la metropolitana: linea B… eccola! Scendo scale ritmate di passi frettolosi, la luce si sfoca nelle viscere della terra, direzione Rebibbia. In attesa del treno mi sento occhi addosso che alitano il mio frigo con su stampato "bone marrow for human transplant". È lui il fenomeno da baraccone per chi aspetta noiosamente la metropolitana osservando il mondo al di là del quotidiano aperto sotto gli occhi con notizie della mattina già vecchie a quelle sei del pomeriggio. Stringo sempre più forte la maniglia, mi da sicurezza fra tutti quegli sguardi. Salgo sul treno e conto: uno, due, tre fermate… ecco la mia! Scendo con il percorso in memoria: su in superficie, attraverso il semaforo, giro a destra poi a sinistra dove, in un elegante palazzina liberty un po' malmessa, è il laboratorio del dirimpettaio ospedale. Un’austera guardia privata in divisa scura mi attende in cima alla scala esterna; capisce dal frigo che sono il corriere e dice: "Venga si accomodi, la dottoressa la sta aspettando!". Guardo l'orologio 18:35 per me è perfetto ma ricordo che Massimo aveva detto che la dottoressa avrebbe aspettato me oltre al suo normale orario di lavoro. Varco la porta e una scala in discesa mi conduce in uno stretto corridoio che a sua volta apre a destra la porta di una stanzina piccola che sa di cantina. Qui mi accoglie infagottata nel suo ampio camice una dottoressa china dai lunghi anni trascorsi fra provette e microscopi. È sincera in quel sorriso, mentre conferma "l'aspettavo!". Prendo il frigo con cura, con entrambe le mani, l'appoggio sul tavolo insieme ai fogli. Lei inforca piccoli occhiali che stanno in bilico sul naso e, insieme, controlliamo sacche, provette e documenti: tutto è a posto. Il prezioso carico può passare così dalle mie mani alle sue. Sarà lei che infonderà la vita nelle vene di chi aveva bisogno d'aiuto. La saluto, le stringo la mano con ammirazione e, alzando lo sguardo mentre afferro il frigorifero più leggero, osservo che lì tutto è lillipuzziano: le stanze, le scale e la dottoressa. Salgo, esco e vedo Roma. L'osservo, la respiro nei suoi selciati, nei suoi viali alberati e ventosi, mentre mi avvio sulla strada di casa, verso la stazione. Tutto è diverso: la città mi appare diversa, più viva, più sorridente. Un suo figlio da lì a poche ore avrà nelle vene una linfa che tornerà a fargli ammirare quei selciati e quei viali alberati che anch'io adesso vedo, sorridente e felice dentro di una gioia mai conosciuta. Non so cos'è, ma respiro a pieni polmoni, sorridendo e camminando.
Questi i miei primi passi, ma sono certa che, adesso che sono battezzata, tanti sono i passi che vorrò percorrere. Sempre più passi, uno dopo l'altro, in giro per il mondo, facendo il corriere di vita.