Era un pomeriggio sul tardi, mi accingevo a finire le ultime cose prima di chiudere l'ufficio ed andarmene a casa. Era stato uno di quei giorni che non ti mettono grande entusiasmo: il tempo grigio, piovigginoso, freddo. Sul fronte del lavoro non era accaduto nulla di particolarmente interessante né urgente, in compenso però avevo smaltito un po' di arretrati. La giornata era scorsa via lenta ma costante e l'idea di andarmene a casa a farmi un aperitivo e magari dare un'occhiata al giornale mi ammiccava fascinosa; non era certo il massimo della vita, ma per essere un martedì d'inverno...
Mentre mi attardavo a rispondere ad una mail, con il preciso intento di uscire dall'ufficio in pari col lavoro, senza lasciare niente al giorno dopo, il cellulare (che molto stranamente era stato piuttosto quieto per tutto il giorno) squillò; il numero era uno di quelli noti dell'ospedale di Careggi a Firenze. Sul momento non identificai esattamente a quale ufficio o reparto appartenesse. Portandomi all'orecchio il telefono pensai: “speriamo che non sia un'urgenza”, premetti il pulsante verde e dissi “pronto”; la voce dall'altro capo del telefono mi disse: “Buonasera sono Chiara” - conoscevo bene l'interlocutore, è la responsabile del coordinamento donazione di organi e tessuti e dei trapianti dell'ospedale di Careggi. Pensai: per chiamare a quest'ora deve essere una cosa importante. Non ebbi tempo di dire nulla che lei continuò dicendo “sono in ospedale, nell'ufficio del Direttore Sanitario, stiamo lavorando ad un nuovo ed importante progetto nel settore trapianti ed avremo bisogno della collaborazione della tua organizzazione. Adesso ti passo il direttore che ti spiega”. Con Chiara abbiamo un ottimo rapporto che si è consolidato in anni di buona e costruttiva collaborazione, se mi passava il direttore sanitario, figura quasi inarrivabile, un po' come i direttori megagalattici dei libri di Fantozzi che leggevo da ragazzo e la cui immagine mi si evocò in mente, doveva essere davvero una cosa importante, pensai. Cercai allora di darmi un contegno, anche se ero al telefono mi venne spontaneo, e soprattutto cercai di concentrarmi bene. Il tempo di pensare tutto questo che la voce del direttore sanitario si fece udire dall'altro capo del telefono. “Buonasera, come sta?” esauriti i convenevoli di rito mi disse “stiamo instaurando una collaborazione con il professor Macchiarini, lo conosce?” esordì. Risposi: “personalmente no ma ne ho sentito parlare all'ospedale Clinico di Barcellona dove vado spesso per le nostre collaborazioni; so che si occupa di trapianti di trachea”. Ebbi l'esatta sensazione che il direttore fosse piacevolmente sorpreso da questa risposta e continuò dicendo “sì proprio lui, come dicevo stiamo iniziando una collaborazione e vorremmo che la sua organizzazione si occupasse dell'assistenza alle equipes impegnate nel prelievo dei tessuti, e del trasporto a Londra della trachea quando sarà pronta per il trapianto. É un progetto molto importante a cui teniamo molto, per questo abbiamo necessità di mettere in campo le nostre migliori risorse. Pensa di poterci aiutare anche in questo progetto?”. Se il direttore sanitario, persona che io conoscevo molto misurata, si esprimeva così doveva essere una cosa di grande importanza ed inoltre sapevo che, in un precedente trasporto di trachea per un trapianto fatto a Barcellona, si erano verificati dei problemi logistici tali da rischiare di far saltare il trapianto; lo sapevo perché all'epoca, all'ospedale di Barcellona, non si parlava d'altro ed anche ci si chiedeva perché non fosse stata la nostra organizzazione incaricata del trasporto per un così importante trapianto. Decisi di usare questa mia informazione e tirando fuori tutta la mia grinta risposi “sì certo con molto piacere, grazie per aver pensato a noi, faremo del nostro meglio, e sicuramente faremo in modo che i contrattempi che ha avuto il professore nella precedente esperienza non si ripetano”. Dall'altra parte: “sa quanto apprezziamo il vostro lavoro; allora siamo d'accordo la dottoressa le fornirà tutti i contatti operativi necessari e coordinerà per la direzione sanitaria le attività. Grazie come sempre e buona serata” ed io mi accomiatai “Grazie a lei per la fiducia, buona serata, a presto”. Inutile dire che questa telefonata mi cambiò la serata, ed anche i giorni seguenti. Essere chiamati a dare un apporto dove altri hanno fallito, o comunque hanno avuto seri problemi è sempre una grande soddisfazione, ma anche un grande impegno, sei sotto esame più che in altre occasioni. Da questi risultati dipende la conferma o meno della tua stima e della tua credibilità professionale, insomma sei chiamato a confermare se sei il migliore o uno dei tanti. Personalmente sono sempre in prima linea e mi piacerebbe esserlo ancora di più ma, per come si è evoluta l'organizzazione che dirigo, è un po' difficile, troppe le cose da organizzare, da seguire, da comunicare. Una medaglia con due bei risvolti: sono un po' costretto a stare in prima scrivania in vece che in prima linea, ma appena ho un po' di tempo vado sempre sulle urgenze e su tutte le altre attività, per avere conoscenza di come si evolvono le cose e poter dare sempre ai nostri bravissimi volontari risposte precise su come risolvere i problemi e le situazioni con cui si devono confrontare. Sono seriamente convinto che non si può essere un buon capo di un'organizzazione altamente operativa se stai sempre solo seduto su una poltrona.
Passai la serata un po' distratto da questi pensieri, sopratutto a cercare di capire cosa poteva accadere e come avrei potuto dare il meglio, non solo per dimostrare di essere all'altezza del compito ma anche perché, come sempre, dalle nostre attività dipende la vita di qualcuno e questo é sempre il primo livello di attenzione.
Il mattino dopo decisi intanto di approfondire la conoscenza di quali erano stati i problemi riscontrati nel precedente trasporto, che era avvenuto con partenza da Londra e destinazione Barcellona. Riuscii a sapere che era stato negato l'imbarco perché non erano rispettate le norme di sicurezza ed esattamente il rispetto delle restrizioni sui liquidi; fui anche informato che il trasporto era stato organizzato e seguito direttamente dal personale sanitario. Il mio primo pensiero, la mia prima considerazione fu: se io entrassi in una sala operatoria e mi intendessi di fare un trapianto, benché ne abbia visti fare davvero tanti, sono più che sicuro che il malato andrebbe incontro a gravi complicanze e certamente alla morte, non è il mio lavoro; esattamente la stessa cosa vale per l'organizzazione logistica di un trapianto. Qualcuno a cui ho espresso questo pensiero mi ha detto che probabilmente erano persone abituate a viaggiare. Continuando nella mia paradossale riflessione posso asserire che anche io sono abituato a curarmi l'influenza e lo faccio davvero bene, ma il trapianto è un'altra cosa; ordunque un conto è andare in viaggio per vacanza sulle nevi o ai tropici ed un conto è trasportare qualcosa che deve essere trapiantato. Ci sono regole da conoscere, procedure da rispettare, uffici da coinvolgere, eccetera, eccetera, eccetera… Fui interrotto dallo squillo del telefono; era il coordinatore regionale dei trapianti, mi cercava anche lui per parlarmi di questo progetto e riferirmi che avevano parlato della questione sia in assessorato regionale che con il Centro Nazionale Trapianti ed erano stati tutti concordi nell'affidare a noi questo incarico. Ringraziai sentitamente, assicurai che avremmo messo a disposizione tutta la nostra capacità e che restavo in attesa di conoscere i dettagli operativi. Fui molto sorpreso e lusingato di tutta questa attenzione in tutti questi uffici importanti dove non ci avevano certamente mai onorato di considerazione prima di ora; anzi, se possibile, si era cercato di ignorare l'esistenza della nostra organizzazione. Era davvero fiducia? Sapevano che poteva essere un'operazione difficile e non sapevano come uscirne? Era un metterci alla prova? Magari rischiando che se ci fosse stato un contrattempo poteva essere il giusto pretesto per metterci in disparte? Come detto sono uno che ama misurasi con le situazioni e poco avvezzo a fare dietrologia; la decisione era presa, si entra in questo progetto e si fa vedere chi siamo! Molto sottovoce, in un angolo della mia mente pensai... speriamo!
Da quel momento, alla fine della mattinata successiva della telefonata del direttore sanitario, abbandonai ogni riflessione strategica; sapevo che c'era da riportare la speranza di una vita normale ad un bimbo di undici anni e solo quello contava.
Nel pomeriggio ricevetti dal coordinatore trapianti il primo documento informativo sul progetto. Si trattava di prelevare alcuni esemplari di trachea, sottoporre poi questi esemplari a trattamento sanitario e quindi trasportare la trachea trattata a Londra, dove sarebbe stata trapiantata in un bimbo di undici anni.
Il nostro intervento era stato richiesto per assistere le equipes di prelievo nell'organizzazione e negli spostamenti necessari per effettuare i prelievi e, in un secondo momento (quando la trachea, dopo il trattamento, fosse stata pronta per il trapianto) trasportarla a Londra.
Convocai subito una riunione preparatoria con gli altri coordinatori della nostra organizzazione per informarli della nuova opportunità e quindi decidemmo di chiedere un incontro con i chirurghi prelevatori per prendere gli accordi operativi. Contattai il chirurgo che mi era stato indicato come riferimento e lui mi suggerì che sarebbe stata necessaria anche la presenza di un'altro componente lo staff: una biologa che, oltre al prelievo, avrebbe dovuto seguire poi tutto il processo preparatorio della trachea fino al trapianto. In pratica la “mamma-tutor” della trachea. L'incontro fu fissato nel giro di poche ore e, con grande sorpresa, appurai che il chirurgo di riferimento dei prelievi era una mia vecchia conoscenza: avevamo già fatto alcune esperienze insieme in un periodo in cui, lavorando alla divisione cardiochirurgica di Pisa, lui era stato impiegato per prelievi di cuore per homograft. Fu effettivamente tutto più facile. Anche in questa occasione come in tante altre giocò a nostro favore il buon lavoro fatto in passato. In queste attività conta ancora molto la fiducia e la stima reciproca; una vera fortuna perché nelle dinamiche di lavoro moderne, fatte di protocolli e di procedure, c'è una pressoché totale disumanizzazione dei processi, che porta spesso alla disgregazione delle varie componenti coinvolte nelle attività. Per noi non è stato così; siamo sempre riusciti a lasciare un buon segno. La riunione corse veloce e molto concreta. Avevamo stabilito tutto quanto era necessario, scambiandoci le informazioni e concordando le modalità operative; eravamo praticamente pronti, mancava solo l'ultimo nulla osta che i chirurghi ci assicurarono sarebbe arrivato nel giro di pochi giorni e poi si poteva dare inizio ai prelievi, all'occasione del primo donatore idoneo.
In effetti il via libera arrivò nel giro di pochi giorni. Prima di poter procedere al primo prelievo fu necessario aspettare qualche giorno. Infatti in quel periodo passò del tempo in cui non vennero segnalati donatori idonei, tanto che mi chiamò il coordinatore regionale trapianti per informarmi che c'era l'orientamento ad allargare il bacino di prelievo anche ad Emilia Romagna e Piemonte e chiedendomi se da parte della nostra organizzazione vi fossero stati problemi a spostamenti a più largo raggio; la mia risposta fu che noi eravamo organizzati anche per lunghi spostamenti, cosa che facciamo puntualmente con altre equipes di altri ospedali. Finalmente fu segnalato il primo donatore potenzialmente idoneo, ma esami successivi di approfondimento evidenziarono delle incompatibilità e non si potette procedere al prelievo. Prelievo però rinviato solo di pochissimi giorni quando, in un tardo pomeriggio, fu segnalata una donatrice a Livorno, una ragazza del nord Italia che si trovava a Livorno e che si era stancata della vita decidendo di privarsene gettandosi dal terzo piano dell'abitazione in cui era ospite. Ricordo che la notizia mi giunse a Madrid, dove mi trovavo per un'altra missione, e mentre distrattamente stavo cercando un ristorante per cenare. Tutto passò in secondo piano, compresa la cena. Fui oggetto di una serie di telefonate per concordare e verificare le cose da fare ed i tempi di attuazione, ed anche per ricevere aggiornamenti. Verso le due della notte, quando tutto fu concluso, riuscii a prendere sonno; dopo aver a lungo pensato all'opportunità che avevo avuto di poter collaborare a salvare un'altra vita. Poi nel giro di pochissimi giorni portammo l'equipe di prelievo anche all'ospedale di Piacenza e di Pisa.
A quest'ultimo prelievo partecipai personalmente e fu un'occasione in cui ebbi modo di vivere una nuova interessante esperienza. Lo staff sanitario mi fece correttamente sapere che i tre prelievi erano al momento sufficienti per individuare il tessuto più adatto per il piccolo paziente e quindi le attività di prelievo erano temporaneamente sospese.
Restava da trasportare la trachea a Londra, quando il trattamento sanitario sarebbe stato ultimato e fosse stata pronta per il trapianto.
Da lì a qualche giorno fui contattato dalla biologa che seguiva il trattamento, la quale mi informò che il trattamento sarebbe finito nel pomeriggio di sabato 13 marzo, che domenica 14 avremmo dovuto eseguire il trasporto, perché il lunedì mattina all'alba sarebbe stato eseguito il trapianto.
Il primo pensiero fu: “proprio di domenica!”. E non perché non avessi gradito la domenica, siamo ormai avvezzi a lavorare in ogni giorno dell'anno, solo che un trasferimento così delicato in un giorno in cui la maggior parte delle attività sono ferme o procedono a ritmo ridotto, e quindi questo poteva rendere tutto più complicato in caso di problemi. Un ulteriore stimolo a fare bene il lavoro di organizzazione del trasporto. Questa organizzazione fu seguita con grande attenzione ed impegno da Patrizia e da me, cercando di prevedere tutti i particolari, gli inconvenienti ed adottando le possibili soluzioni. Alla fine il piano di viaggio era pronto e prevedeva: partenza da Careggi alle 11:00 in auto destinazione Pisa, quindi aereo destinazione Londra dove si prevedeva di arrivare alle 17:30 ora locale (perché nei vari parametri del calcolo era necessario considerare anche un'ora di fuso). Discutemmo con lo staff sanitario tutte le nostre scelte, motivando le varie decisioni, e alla fine il nostro piano strategico fu approvato e si potette procedere. Solo una piccola variazione: la biologa che aveva seguito tutte le fasi, avrebbe seguito anche il viaggio come supervisore, per assicurarsi che tutte le prescrizioni sanitarie fossero seguite e rispettate durante il trasporto. Un ulteriore aiuto non avrebbe guastato, tutt'altro.
Anche perché con Silvia, la “mamma della trachea” appunto, in tutte le fasi organizzative dei prelievi e del trasferimento, si era creata una buona sinergia.
Mi incaricai io stesso di eseguire il trasferimento, un po' per la delicatezza della missione (mi piace sempre misurarmi con le situazioni particolari) ed un po' per un mio vecchio rito propiziatorio secondo cui - essere il “capo” ad iniziare le nuove attività sia presagio di successo per tutto il proseguo dell'attività con la nuova struttura con si interagisce - .
Giunse la vigilia della partenza. Al sabato mattina l'ultima conferma con Silvia: “allora ci vediamo a Careggi domani mattina alle undici precise, ok!”.
Nella serata, parlando con Gabor, il nostro uomo tecnologico, concordammo che un evento di questa portata doveva essere documentato e quindi lo pregai di venire anche lui la mattina seguente per effettuare alcune riprese video ed alcune foto dell'evento. Come sempre Gabor accettò con grande entusiasmo.
Finalmente arrivò il grande giorno! Al mattino mi svegliai presto, con buon anticipo rispetto a quando avessi programmato la sveglia. Meglio, pensai; feci tutte le cose con calma, ricontrollai la documentazione necessaria al trasporto e la mia valigia, poi uscii di casa. Una colazione al bar della domenica. Riconoscere la festa anche in un giorno in cui è previsto un lavoro così importante è un piccolo piacere; il tempo c'era e questo fu un ottimo espediente per ingannarlo e giungere all'ora in cui mi dovevo muovere per iniziare la “missione”.
Arrivammo a Careggi: io, Gabor che avrebbe fatto le riprese video e le foto e Patrizia che invece avrebbe curato il nostro trasferimento fino all'aeroporto di Pisa. Eravamo in leggero anticipo, ma anche Silvia era già pronta. Tirammo fuori la trachea dal frigorifero dove era conservata e la riponemmo nel contenitore da trasporto secondo le modalità che avevamo provato più volte nei giorni precedenti, però questa volta il contenitore non era quello vuoto che utilizzavamo per testare ingombri e temperature. Questa volta era quella “vera”! Nel giro di dieci minuti portammo a termine con naturalezza il confezionamento (tanto avevamo provato e riprovato) e attivato il dispositivo di rilevamento della temperatura, sotto lo sguardo vigile ed indiscreto della telecamera, sapientemente utilizzata da Gabor; chiudemmo il contenitore ed eravamo pronti a partire. Appena fuori dal padiglione ospedaliero Patrizia ci aspettava con la macchina già posizionata per la partenza, salimmo a bordo, avendo cura di sistemare all'interno dell'auto il prezioso contenitore nel posto più sicuro; il tutto mentre Gabor riprendeva senza lasciarsi sfuggire neppure un istante delle operazioni.
Siamo in movimento, Patrizia si muove sicura e disinvolta nel sonnecchioso traffico della domenica mattina; una breve telefonata alla sala operativa provinciale di Protezione Civile per chiedere conferma della presenza di traffico per strada, in ordine di decidere se percorrere la Fi-Pi-Li oppure l'autostrada. Chiuso il telefono Patrizia imbocca sicura la Fi-Pi-Li, Gabor ogni tanto riprende, Silvia smanetta col cellulare, impegnata a dare qualche aggiornamento, io guardo Patrizia che mi fa un cenno che interpreto come “tutto ok, strada libera”. Non era proprio così, qualche chilometro dopo uno dei pannelli a messaggio variabile ci informa di una possibile coda dopo Pontedera a causa di lavori. La strada scorre tranquilla fino al punto indicato in cui era prevista la coda, ma in effetti non ne troviamo, solo un fisiologico rallentamento all'inizio del cantiere. Qualche chilometro più avanti invece vediamo da lontano le macchine ferme su tutte e due le corsie. Silvia, anche se non proferisce parola, tradisce con l'espressione un velo di preoccupazione; la guardo rassicurandola. Si scuote al suono della sirena che Patrizia aveva azionato per superare più agevolmente la coda, vedo lo sguardo di Silvia rasserenarsi. In pochi minuti siamo oltre la coda che in effetti non era davvero lunga. Ancora un po' e siamo in aeroporto. Gabor scende velocissimo e si posiziona per riprendere le ultime immagini, poiché all'interno dell'aerostazione non si possono fare riprese se non preventivamente autorizzati. Scendiamo anche io e Silvia, le nostre valige, e per ultimo il contenitore con la trachea.
Rapidamente giungiamo al check-in, dove una scolaresca aveva creato una coda interminabile. Quando si fanno i trasporti di questi materiali così delicati non è mai opportuno essere in situazioni potenzialmente rischiose; magari i ragazzi iniziano per gioco a spintonarsi e ci si espone al grave rischio di finire in mezzo a questi giochi che potrebbero finire per danneggiare il nostro prezioso trasporto. Individuo il capo scalo, che si aggira tra gli sportelli, gli spiego la situazione e gli chiedo di poter fare le operazioni di check-in in un banco speciale; lui capisce subito la situazione e molto cortesemente acconsente.
Grazie al meticoloso lavoro di preparazione e di richieste delle opportune deroghe alle disposizioni sul trasporto in cabina di liquidi, superiamo agevolmente e con rapidità tutte le procedure aeroportuali e siamo pronti all'imbarco che avviene puntualmente dopo pochi minuti, mentre Silvia è ancora impegnata a rassicurare qualcuno che tutto è a posto; saliamo a bordo e ci sistemiamo nei posti a noi assegnati.
L'imbarco di tutti i passeggeri si completa e noto che siamo in orario. Ormai tutti sono al loro posto e gli assistenti di volo hanno già chiuso i comparti dei bagagli; la partenza appare imminente. Dopo ancora qualche minuto una hostess mi si avvicina ed in un ottimo italiano, mi chiede: “Lei è Massimo Pieraccini?”, “Sì” rispondo. Riprende lei perentoria: “bene mi segua per favore”. Mi alzo e la seguo facendo un cenno a Silvia, come dire “attenzione che nessuno tocchi il contenitore”, e lei di rimando “ok”, anche se traspariva dalla sua espressione una certa agitazione.
Seguo la hostess, arriviamo nel comparto anteriore dell'aereo, proprio di fronte alla porta d'accesso alla cabina di pilotaggio; lì mi si para davanti una donna sui cinquanta, forse più, non indossava nessuna uniforme, solo una pettorina arancione sopra agli abiti civili. Mi dice “ma lei sta trasportando...” e non finisce la frase; la fisso e le chiedo “si? continui”. E lei: “no... perché... a me da su non hanno detto niente... nessuno mi ha avvisato” ed io “mi dica... che informazioni le servono? Cosa posso fare?”, e lei insistente “perché ci sarà una procedura... ma io non so... non mi hanno detto nulla da su... ora devo telefonare…”. Cerco di insistere: “mi dica cosa le serve; come posso spiegarle, noi abbiamo fatto tutta la procedura, abbiamo informato tutti gli uffici, che hanno anche rilasciato la formale autorizzazione all'esportazione”. Ma lei non mi ascolta, parla al telefono, o meglio cerca di parlare perché nessuno le risponde, probabilmente perché è domenica. Passano un po' di minuti e poi ci rimettiamo a parlare; le chiedo se possa essere d'aiuto vedere la documentazione. Mi dice, senza troppa convinzione, di mostrargliela. Sotto lo sguardo incuriosito o seccato di tutti i passeggeri torno al mio posto; chiedo a Silvia, che nel frattempo si era rimessa a telefonare, di passarmi i documenti. Lei perplessa mi guarda intimorita e mi dice... “ma la trachea no vero?”, “no tranquilla” rispondo io, tornano verso la cima dell'aereo. Fatto qualche passo mi sento chiamare, mi volto e Silvia attonita mi dice “se ti fanno scendere mandami un messaggio”. La guardo e sorrido. Arrivo di nuovo nella parte anteriore dell'aereo e mostro alla mia interlocutrice i documenti; li avevamo controllati più volte anche con gli altri sanitari, prima della partenza. Lei li guarda distrattamente sotto l'occhio vigile del comandante dell'aereo, che nel frattempo era uscito dalla cabina di pilotaggio per assistere personalmente a ciò che accadeva, e mi chiede “io ho portato altre volte passeggeri che trasportavano cose per trapianti, di cosa ha bisogno Lei di particolare?”. Rispondo sfoggiando il mio miglior sorriso “assolutamente niente... solo un passaggio a Londra”; il comandante prima di rientrare in cabina: “per me va bene così, se non c'è altro possiamo andare”. La signora che aveva dato origine a questa situazione stava guardando le carte e, pur non avendo ben capito cosa cercasse, attiro la sua attenzione sull'autorizzazione ad eseguire l'esportazione rilasciata dal competente ufficio del Ministero della Salute, sperando che potesse convincersi, poi le chiedo chi della direzione aeroportuale dobbiamo chiamare affinché gli fornisca il nulla osta che ritiene le sia necessario. A quel punto, fortunatamente, qualcuno al telefono le risponde, la rassicura, chiude la telefonata e, rivolta a me ed a tutto l'equipaggio, che nel frattempo si era radunato attorno a noi, ci dice che va bene, possiamo partire. Tra gli sguardi dei passeggeri, che a questo punto tradiscono tutti una certa insofferenza, torno al mio posto. Silvia è attonita ma dal mio sorriso e dal fatto che mi siedo capisce che è tutto a posto; la guardo rassicurante e le dico “li ho convinti!”.
In effetti era proprio una rassicurazione che non stavamo facendo nulla al di fuori delle regole quella che serviva a questa persona dell'aeroporto, però se tutto non fosse stato preparato bene forse il rischio che potesse tentare di tenermi a terra, nonostante l'alto valore della mia missione era concreto. Tanto che le ultime parole che le ho sentito dire al telefono sono state “allora lo lascio partire”. Penso che in ogni caso avrei argomentato con tutte le mie parole prima di lasciare quell'aereo. Però organizzazione, preparazione ed esperienza, anche questa volta, sono state sufficienti. Mentre pensavo così, sono iniziati gli annunci pre-partenza ed in pochissimi minuti eravamo in volo. Il tempo lungo la rotta era buono e siamo arrivati a Londra in orario.
Per raggiungere il Royal Free Hospital avevamo scelto di utilizzare la metropolitana, il mezzo più veloce e comodo per muoversi a Londra, anche perché era previsto un solo cambio e la fermata era a cento metri dall'ospedale. La prima metropolitana è arrivata in due minuti, siamo saliti a bordo e ci siamo seduti, il prezioso contenitore sistemato sopra il mio trolley mediante un apposito meccanismo che ne garantisce la sicurezza, e posizionato proprio davanti a me. Nella fila di sedili che stavano dirimpetto a me e a Silvia, che mi sedeva accanto, si siede una coppia apparentemente oltre sessant’anni. Certamente tornavano da un viaggio anche loro, avevano delle valige, che sistemarono in uno spazio apposito accanto ai sedili. Appena si furono sistemati mi guardarono da prima in modo intollerante, con quel classico fare superiore, tipico inglese, non approvavano che mi tenessi la valigia davanti, ostruendo un po' il passaggio all'interno del vagone; poi la donna scrutando attentamente me ed il mio bagaglio soffermò il suo sguardo sul contenitore e lesse le scritte. Capì che si trattava di qualcosa connesso ad un trapianto; io ero occupando a scrutare la mappa della metro, percepii qualche cenno del capo e degli sguardi tra la donna e Silvia, mi voltai e la donna guardò prima me e poi il “contenitore” poi di nuovo me. Annuii, come dire che era tutto vero, che lì dentro c'era davvero qualcosa che avrebbe ridato la vita a qualcuno; improvvisamente a quella donna si arrossarono gli zigomi, gli occhi si fecero lucidi, tratteneva le lacrime a stento, le guance intere si fecero sempre più rosse, e si capiva chiaramente che era molto sensibile a questo argomento. Con un po' d'imbarazzo distolsi lo sguardo. Durante il viaggio i nostri sguardi s'incrociarono altre volte ma non ci parlammo mai, non una parola né da me né da lei. Occasionalmente la donna, con molta dignità, guardava me, il “contenitore”, Silvia. Ad un certo punto tirai fuori la mappa della metropolitana per verificare per l'ennesima volta quante fermate mancavano. In quel momento la donna parlò molto sommessamente all'orecchio del marito, il quale si alzò, fece qualche passo fino a raggiungere i suoi bagagli, tirò fuori da una delle tasche della valigia una cartellina di quelle dove si mettono i documenti. La aprì con cura e cercando di mantenere in equilibrio le carte in modo che non cadessero per terra, tirò fuori un qualcosa di carta ripiegato, richiuse la cartellina e la ripose nella valigia. Tornò a sedersi accanto alla moglie e le porse quel piego di carta che aveva in mano, la moglie lo prese in mano lo osservò, poi cercò di attirare la mia attenzione e me lo porse con un sorriso molto radioso. Mi resi conto che era una mappa ingrandita della metropolitana. La ringraziai e cercando di schermirmi dissi che non era necessario che potevo cavarmela, ma lei con voce flebile, un po' turbata dalla commozione insistette affinché la prendessi. Accettai e presi in mano quel piego di carta con cura, come si tratta una cosa preziosa, lo riposi nella busta di cellophan che stava appiccicata sopra al tappo del contenitore con dentro la trachea. E' una busta in cui teniamo i documenti che è necessario sempre avere a portata di mano durante i viaggi. Questo gesto che a me venne spontaneo, come a voler dire lo tengo a portata di mano, aumentò, se possibile, ancora di più la commozione della donna, ed anche un po' il mio imbarazzo. Un paio di fermate ancora e la coppia scese dalla metropolitana; ci salutammo con un gesto del capo ed un grande sorriso che mal celava la commozione. Un'altra delle tante testimonianze silenziose raccolte in tanti anni, che ti aprono il cuore, che ti fanno sentire davvero orgoglioso di avere la fortuna di poter essere colui che porta la vita in giro per il mondo. Mi coccolai tra me e me questa gioia a lungo, durante il resto del viaggio, tanto che ebbi la sensazione di arrivare a destinazione davvero in breve tempo. Verificai con l'orologio, circa dieci minuti di ritardo rispetto a quello che avevamo programmato, un tempo davvero eccellente.
Il nostro contatto, un giovane biologo inglese, molto gentile ci venne incontro all'ingresso dell'ospedale e ci guidò per scale e corridoi, fino al laboratorio dove la trachea sarebbe stata posta fino al mattino seguente, quando sarebbe stata portata in sala operatoria per il trapianto. Sbrigammo le formalità burocratiche e la trachea fu consegnata; Silvia, con molta attenzione, si assicurò che fosse riposta in modo adeguato. Nel parlare col nostro contatto, nel tratto tra il laboratorio e la porta di uscita, realizzammo che ci eravamo già conosciuti in un’occasione precedente in cui mi ero recato a quell'ospedale a prendere delle cellule staminali da trapiantare in una ragazza affetta da leucemia e ricoverata in Spagna. Salutammo il giovane biologo inglese e ci congedammo, incamminandoci verso la fermata della metropolitana. Ci guardammo con Silvia, compiaciuti: era stata sofferta ma ce l'avevamo fatta. Ci prendemmo qualche istante per dire che eravamo contenti e questa soddisfazione la volevamo condividere con tutto il team, certi che sarebbe stata presto condivisa con tutta la rete; quindi iniziammo a inviare SMS che dicevano tutto ok... fatto... eccetera. Arrivammo alla fermata della metropolitana e finimmo l'invio di informazioni perché, come si scende verso i binari, il campo del cellulare sparisce. Restiamo di nuovo soli, io e Silvia, senza la trachea, il nostro stato d'animo è confuso: gioia e soddisfazione per aver portato a termine con successo la missione, un velo di tristezza perché tutto era finito. L'adrenalina iniziava a scorrere più lentamente. Ero cosciente che avevamo messo in campo le nostre migliori risorse, perché tutto il mondo ci guardava in questa missione, ma sopratutto per non disattendere le speranza del piccolo inglese e dei suoi cari di riaverlo a casa sano e per non vanificare il grande gesto di generosità dei donatori. Per raggiungere i nostri rispettivi alberghi era necessario dividersi. Ci salutammo. Finì così di fatto la nostra missione. Ci demmo appuntamento telefonico più tardi, per capire se avremmo cenato assieme anche con i chirurghi toracici fiorentini che erano già arrivati a Londra. Raggiunsi l'albergo e mi sistemai; una telefonata a Patrizia per ringraziarla dell'ottima organizzazione e per condividere questa soddisfazione e raccontarle qualche dettaglio, un po' come ho fatto qui, adesso. Poi una lunga doccia e poi il telefono ancora; era Silvia che mi diceva che aveva incontrato i nostri chirurghi, che erano poi quelli che avevano prelevato la trachea che sarebbe stata trapiantata, e mi invitavano a raggiungerli per cenare insieme. Fu uno strano piacere per me essere in una città lontana e poter cenare con persone conosciute, io che ho girato tutto il mondo ed in ogni angolo ho cenato da solo. La serata scorse piacevolmente, chiacchierammo mangiando, poi, usciti dal locale, ci separammo per tornare ognuno al proprio albergo, in cerca di un sonno ristoratore che ci rendesse pronti per la pesante giornata successiva. Ognuno doveva alzarsi presto: loro per recarsi in ospedale ed assistere al trapianto, io per tornare a casa dove mi attendevano nuove missioni.