È finalmente arrivato anche il nostro turno, si parte per l’Abruzzo!
Un misto tra entusiasmo e malinconia sono i sentimenti che vivono dentro di me nelle ore precedenti la partenza, fissata nel tardo pomeriggio di lunedì. Destinazione l’Aquila, campo tecnico base Firenze. Un campo tecnico è una tendopoli dove alloggia solo personale tecnico, ovvero coloro che vanno ad eseguire le verifiche di agibilità sui fabbricati, persone che, come noi, svolgono compiti particolari: polizie municipali e qualche volontario che è necessario per la conduzione del campo. Scopriremo poi che in quasi tutti i campi, anche dove è alloggiata la popolazione, il personale di supporto è limitato a poche unità necessarie al funzionamento del campo; un ausilio agli abitanti che si rendono disponibili ad effettuare le varie attività come cucinare, pulire, gestire le scorte di cibi e ad altri servizi di prima necessità. Il nostro compito sarà di filmare e fotografare il più possibile le attività svolte dalla Toscana, con particolare attenzione a quelle della Provincia di Firenze e del Comune di Firenze che, insieme, gestiscono il campo tecnico de L’Aquila, dove faremo base ed alloggeremo.
Non è necessario che il nostro lavoro sia svolto tempestivamente ed è per questo che siamo partiti solo all’inizio di giugno, per lasciare (prima) posto a coloro che dovevano svolgere le attività di primo soccorso, allestimento ed ottimizzazione delle tendopoli.
Adesso è il nostro momento; si parte, per tre-quattro giorni saremo nelle zone del disastro e ci muoveremo per obiettivi che il responsabile della sala operativa di Protezione Civile della Provincia di Firenze ci ha preventivamente indicato.
La squadra della nostra Associazione, il Nucleo Operativo di Protezione Civile, è composta da me e Gabor, che sarà il capo missione. Il capo missione non è solo un ruolo formale è colui che è incaricato di pianificare le attività, interfacciarsi con gli interlocutori per organizzare il lavoro ecc. É dalla sua capacità relazionale che dipende molto il successo della missione: riuscire ad instaurare buoni rapporti in una situazione ad alta criticità come quella che ci aspetta, significa poter fare un lavoro eccellente anziché buono.
Dopo quasi quattro ore sotto la pioggia che ci ha accompagnato per buona parte del viaggio giungiamo al Campo Base Firenze. Con le indicazioni che ci ha dato Lucia, una delle operatrici della Provincia di Firenze non è stato difficile raggiungerlo. Il campo si presenta avvolto nella luce ovattata di una fotoelettrica. Un paio di transenne bloccano l'ingresso ed un cartello in plastica lo identifica. Un grande piazzale semideserto, sulla destra riconosciamo subito la sala operativa mobile della Provincia di Firenze e, accanto, un tendone molto grande con tavoli e sedie: scopriremo poi che è una specie di sala riunioni; forse ricorda più un agorà della magna Grecia. Di fronte il camper del Comune di Firenze, allestito con una veranda esterna e, accanto, un gazebo rosso con le insegne del Comune. Quello è l'alloggio del capo-campo e dove si tengono riunioni più riservate. In giro pochissime persone, piove ancora, solo qualcuno in segreteria e nel piazzale Paolo, il capo-campo, che ci ha visti arrivare e guardarci attorno spaesati, ci accoglie in modo cortese, un po’ perplesso perché per un difetto di comunicazione non era stato avvisato del nostro arrivo. Dopo qualche minuto di imbarazzo reciproco, noi nel cercare di spiegare come e perché eravamo lì, lui nel cercare di capire perché non era stato avvisato, poi con una telefonata alla sala operativa di Protezione Civile della Provincia di Firenze che conferma che siamo stati inviati per loro conto e fornisce indicazioni circa il lavoro che dovremmo svolgere: tutto a posto, tutto chiarito, si può procedere con le pratiche di censimento, l'assegnazione del posto in tenda ecc. Dopo pochi minuti siamo con le lenzuola in una mano e la nostra valigia nell'altra che camminiamo sul fine ghiaino chiaro che è stato steso per coprire la terra e fare da base al campo, realizzato in un parcheggio nei pressi dello stadio di rugby; andiamo in cerca della nostra tenda, la numero due. Per fortuna si trova all'inizio del campo, qualche goccia di pioggia cade ancora, l'aria è fredda, il termometro segna dieci gradi; pochi in confronto ai venticinque che avevamo lasciato a Firenze, ma soprattutto pochi per la popolazione, che già da mesi vive in queste condizioni e probabilmente per mesi ne avrà. Noi siamo tutti giovani e abbiamo scelto questa esperienza di solidarietà, ma gli sfollati!?! Anziani, bimbi, qualcuno sarà sicuramente, purtroppo, ammalato... Questo primo pensiero mentre attraversiamo il campo compiendo a piedi il tratto fino ad arrivare alla nostra tenda.
Le tende sono quelle ministeriali della Protezione Civile, a doppio strato, blu all'esterno e grigio all'interno; per terra uno strato di gomma grigia per evitare le infiltrazioni d'acqua, che in una giornata come questa sicuramente sarebbero state anche abbondanti, rendendo la situazione ancora più disagiata. In ogni tenda ci sono otto letti e lo spazio per i movimenti è piuttosto limitato, ma per il periodo che dovremo starci noi è più che confortevole. Altra cosa immaginare che nelle medesime tende ci stanno gli sfollati del sisma, ovvero coloro le cui case sono inagibili o in attesa di verifica. In tenda con noi ci sono altre quattro persone: sono tecnici, ingegneri ed architetti, che sono incaricati di fare le verifiche di agibilità dei fabbricati.
La prima operazione è quella di scegliersi il letto (tra quelli liberi) e prepararlo con lenzuola e coperte per poterci dormire; contemporaneamente i primi convenevoli con i compagni di tenda e qualche parola sulla situazione in loco.
Sistemato tutto, pronti per la prima notte, Gabor, esercitando con puntualità e responsabilità la sua funzione di capo missione si reca dal capo campo per prendere accordi sul lavoro da svolgere l’indomani. Io resto in tenda, accendo il mio computer portatile; mi accorgo subito del disagio di non avere un tavolo o una sedia. Avverto uno stimolo fisiologico: i bagni sono fuori, è necessario vestirsi, mettersi le scarpe. Sono ubicati piuttosto vicini alla nostra tenda e realizzati all'interno di container, chiaramente identificabili per uomini e donne, e tappezzati di avvisi con le istruzioni per l'uso; sono leggermente rialzati, tanto che per raggiungerli è necessario salire una scaletta a quattro gradini. Ogni container ha tre bagni ed una doccia, nonostante l'ora tarda li trovo piuttosto puliti e con acqua calda.
Non sono mai stato incline verso i campeggi, tanto che non ho mai provato questa esperienza e non lo rimpiango.
Dopo aver sperimentato anche i bagni, torno in tenda. La pioggia batte incessante col suo noioso ticchettio sulla tela della tenda; rumore che si avverte chiaramente dall'interno della tenda e acuisce la sensazione di disagio. Gabor è tornato, mi riferisce del suo colloquio col capo-campo, informandomi che la mattina seguente dovremo andare ad una cerimonia per la celebrazione del 2 giugno, festa della Repubblica, e nel pomeriggio in un paese che si chiama Sant'Angelo per filmare un paio di abitati; lì, nella locale tendopoli, ci sarà un concerto organizzato per gli sfollati. Prendo atto del programma senza grande entusiasmo, spengo il computer e provo a dormire. Dopo qualche confusa riflessione sul primo approccio a questa nuova realtà il sonno arriva; a parte qualche occasionale risveglio dovuto al russare di qualche compagno di tenda, la notte scorre veloce. L'ennesimo risveglio è dovuto al frenetico rumore delle zip degli zaini e delle valigie, oltre che delle porte delle tende, che vengono aperte dai più mattinieri che, prese le cose necessarie, si recano ai container-bagno per le operazioni mattutine. Io non sono mai stato mattiniero, anzi, sono piuttosto portato ad alzarmi con comodo. Il rumore è noiosamente continuo e si iniziano anche a sentire avviare i motori delle prime auto che escono in missione. Con un certo sforzo guardo l'ora: sono le sei e cinquanta, ora antelucana per le mie abitudini. Guardo verso l'ingresso della tenda: la sagoma di uno dei compagni di tenda si staglia contro la luce esterna già piuttosto forte, nonostante la giornata sia nuvolosa e una leggera pioggia cada ancora. Decido di non intralciare le operazioni degli altri mattinieri e me ne sto ancora fermo a letto; sicuramente non dormirò ma l'idea di alzarmi così presto mi rilutta un po’. Gabor, reduce dall'escursione ai bagni, è già vestito e pronto, nonostante l'appuntamento sia fissato davanti alla segreteria del campo alle 08.45; mi si avvicina con voce suadente, mi augura buon giorno e mi chiede se può accendere la luce. Sono rimasto solo io nel mio giaciglio, come dire di no. La luce si accende, dando ufficialmente il via alla prima giornata di lavori. Gabor mi informa che sta andando in segreteria per riconfermare gli accordi. Io mi vesto parzialmente e mi dirigo alla zona bagni; essere ritardatario mi gioca a favore, non trovo fila, solo un moderato andirivieni tra le tende ed i bagni, qualcuno già vestito, pronto, che si dirige verso la zona colazione, qualcuno in accappatoio che si è appena fatto la doccia, qualche donna con i capelli ancora stravolti dalla notte in tenda. A quest'ora le tende sono quasi tutte aperte, si intravedono gli interni. I letti, qualcuno disfatto altri già pronti per la notte successiva. Piove, non forte, non insistentemente ma piove.
Sbrigo le formalità di bagno riducendole al minimo indispensabile, torno in tenda e mi finisco di vestire; in breve sono pronto per uscire. Sono le sette ed un quarto, non so da quanto non uscivo di casa alle sette ed un quarto, ma non fa nulla. Ritorna Gabor, dicendomi che a causa della pioggia la cerimonia alla quale dovevamo partecipare è stata annullata per il maltempo, quindi il programma è cambiato: si va a fare le riprese nella “zona rossa”.
Zona rossa, è una definizione che inquieta un po', suscitando fascino e curiosità ma anche timore. Ci dicono poi che la zona rossa è il centro della città de L'Aquila, dove il sisma ha colpito più duramente e dove nessuno può accedere ad esclusione dei vigili del fuoco e personale tecnico.
Dopo una veloce colazione alla tenda bar e la verifica delle attrezzature siamo pronti a partire. Io mi siedo al posto di guida e pongo la macchina in posizione di partenza; sono pronto! La giusta carica e l'entusiasmo sono tornati; mi accade spesso di ritrovare l’entusiasmo e la grinta necessaria per affrontare anche gli impegni più difficili, proprio quando questi stanno per iniziare. A poca distanza scorgo Gabor che parlotta con due agenti della Polizia Municipale che, a causa di qualche ingrato compito che caratterizza il loro normale lavoro e di un paio di disavventure avute con qualcuno di questi agenti in gioventù, non mi suscitano, preconcettualmente, alcuna simpatia. Non ho mai perdonato alla categoria di avermi sequestrato, peraltro a giusta ragione, la mia bellissima vespina che avevo incautamente modificato. Ma talvolta gli istinti del cuore hanno la meglio sulla ragione. Quando mi accorgo che Gabor guarda nella mia direzione gli lampeggio nervosamente con i fari della macchina, come a sollecitarlo per partire e dare inizio alla fase operativa della missione. Gabor si dirige verso la macchina che avevo già messo in moto; meno male, penso. Invece Gabor si para dalla parte sinistra ed istintivamente abbasso il finestrino. Si avvicina e mi informa che il capo-campo ha disposto che ci sia assegnata una scorta per tutti i nostri spostamenti, con il compito di guidarci ed agevolarci il lavoro; mi informa anche che ci vorrà ancora qualche minuto perché gli equipaggi di scorta siano formati. Il tempo sembra rallentato, sarà che per principio non mi piacciono le attese, sarà stata l’ansia di iniziare a fare qualcosa, sarà stata la curiosità di vedere in cosa consisteva questa scorta, quei pochi minuti mi sembravano davvero non passare mai. Intanto la pioggia si era leggermente rarefatta, le nuvole in cielo erano meno nere ma ancora dense, cariche di pioggia.
Gabor arriva, sale in auto con l’aria soddisfatta di chi ha fatto qualcosa di importante. Mi guarda e mi dice “accodati a quel Land Rover della Polizia Municipale, e presta attenzione, perché un’altra macchina, sempre della Municipale, si accoderà”. Partiamo! Abbiamo una scorta vera, come le personalità, una macchina davanti ed una dietro; i primi chilometri scivolano veloci, tra il riassunto di Gabor sugli accordi presi. Mi mostra anche un foglietto con tutto il programma del giorno e il guardarsi intorno per cercare di capire quali potessero essere stati gli effetti del sisma. Ad un certo punto la prima macchina di scorta rallenta inevitabilmente, mi avvicino, noto sulla sinistra una camionetta militare, un agente della Municipale scende, esterna le credenziali al militare che annuisce; l’agente risale a bordo e ripartiamo. Poco più su di una strada, leggermente in salita, stessa scena, questa volta è una camionetta della Guardia Forestale, sulla nostra destra un palazzo cui è crollata una parte di tetto ed un angolo di muro di circa due o tre metri: come si faceva una volta ai cartoni del latte che si tagliava un angolo. Dopo un altro posto di controllo, questa volta della Polizia di Stato, giungiamo in una piazza grande, dove ci sono tanti mezzi dei Vigili del Fuoco; mezzi di vario genere, autoscale, autogrù, cestelli, furgoni, camionette, auto... di tutto un po’. Parcheggiamo all’esterno della piazza, tutti scendiamo dalle auto e l’agente della scorta più alto in grado ci si avvicina dicendo: “ecco qui siamo nel cuore della città. Da qui non dovreste trovare più blocchi, potete muovervi più liberamente, ma fate molta attenzione, e se ci sono problemi fate riferimento a noi”. Possiamo iniziare il nostro lavoro. Messi i caschetti protettivi e prese le attrezzature, iniziamo la nostra perlustrazione. Girandomi subito sulla destra, noto che il punto dove vanno a convergere i bracci delle gru altro non è che la perpendicolare della cupola della chiesa che tante volte avevamo visto in tv, ma lì è un’altra cosa, davvero un impatto forte, quella cupola metà caduta, metà in bilico, con i vigili del fuoco intenti a puntellare e cinturare, per impedire altri crolli, la perdita di altri pezzi di cultura, di storia… di vita. Come in una lotta contro il tempo o come contro un ignoto nemico che ti può colpire alle spalle, quando meno te lo aspetti.
Facciamo alcune riprese della cupola e dei Vigili del Fuoco al lavoro riprendendo da più angolazioni, poi ognuno imboccando strade diverse tra quelle che si affacciano sulla piazza, ci addentriamo nel centro storico de L’Aquila. Ci si presenta una città fantasma, nessuno in giro per le strade; le finestre, i portoni, i negozi tutto rigorosamente ed attentamente chiuso. Silenzio! Silenzio nelle strade, silenzio all’interno delle case, nei piccoli cortili… rotto solo da alcuni macchinari dei Vigili del Fuoco che, suddivisi per squadre e specialità, fanno il loro lavoro; poi improvvisamente nel silenzio un rumore noto, il ruggito inequivocabile di una motosega che addenta un tronco. Resto perplesso: perché una motosega? Seguo il rumore, mi avvicino e capisco! Viene usata dai Vigili del Fuoco per segare delle travi più o meno grandi che useranno per puntellare i muri degli edifici pericolanti, quelli che, ipoteticamente, si pensa di poter salvare. Seguo per alcuni minuti il lavoro di questa squadra; stanno cercando di mettere in sicurezza il teatro San Filippo. Poi mi si avvicina un ingegnere dei Vigili del Fuoco, si informa su chi sono e cosa faccio; mostro la mia tessera e spiego. Fortunatamente in tutti i comandi dei Vigili del Fuoco c’è una squadra che ha compiti analoghi a quello che io sto svolgendo; capisce subito e mi fa entrare all’interno del teatro. É certamente un appassionato di arte perché mi fa notare una serie di particolari, poi mi porta dentro una chiesetta, tetto semidistrutto e tutto ammassato informemente in mezzo tra le panche, anche loro distrutte a causa dei crolli; solo l’altare è stato messo in sicurezza e poi sono stati montati dei ponteggi. L’ingegnere dei Vigili del Fuoco è una guida esperta e preziosa, è lì da un po’ di giorni, però mi dice anche che deve tornare dai sui uomini; lo ringrazio, mi saluta e mi da qualche indicazione su dove posso trovare materiale per il mio lavoro. In effetti non è difficile trovare da documentare distruzioni e crolli: il centro storico de L’Aquila è un susseguirsi continuo di case più o meno distrutte, più o meno lesionate, di tetti a brandelli, caduti parte sui marciapiedi deserti, parte sugli stessi edifici, quasi come ripiegati su se stessi. Veramente improbo pensare di filmare, di fotografare tutto, pensare poi di descriverlo è impossibile, ci vorrebbero pagine e pagine di parole. Mentre percorro un’altra strada intravedo una porta semiaperta, la spingo, è aperta. Dà in quel che resta di un appartamento, mi affaccio: calcinacci ovunque, la tastiera di un computer e lo stereo in mezzo alla stanza. Nell’altra stanza, da letto, il segno inequivocabile di una normalità brutalmente interrotta, un giornaletto piegato sul comodino, le lenzuola aperte a triangolo, come di chi è corso via… I cuscini solo leggermente storti, come se vi avessero fatto leva per scappare più velocemente; sopra uno di essi qualche sasso, su tutto il letto calcinacci. Mi muovo ancora un poco, scorgo un bagliore, alzo la testa, il tetto per buona parte non c’è più, mi viene in mente l’inopportuno paragone e penso “una casa cabrio”, quasi metà del primo piano è crollato e si intravede un letto in bilico; spero che sia stato vuoto o che il suo occupante abbia avuto l’istinto di gettarsi dall’altra parte. Filmo e fotografo più che riesco, poi esco. Penso che questo aspetto della nostra attività forse è un po’ ingrato; forse inopportuno? Si tratta di andare a vedere e a cercare le immagini più eloquenti della distruzione; talvolta, anzi spesso, immortalando quelle cose che possono rappresentare la disperazione di altra gente… Avvicinarsi molto, fino a sfiorarli, ai sentimenti di altre persone, alle loro cose care alla loro vita, come silenziosi invasori.
Nella realtà vogliamo solo documentare il disagio, la distruzione, affinché si possa amplificare il messaggio di solidarietà; non potremo mai rendere a queste persone nulla dei pezzi della loro vita andati in frantumi con le loro case, potremo solo testimoniare e aiutarli a rimettere insieme i frammenti della loro anima. Ad interrompere i miei pensieri il telefono: è Gabor, mi sollecita perché la nostra “scorta” dice che dobbiamo ancora raggiungere un obbiettivo per completare il programma della mattina. Mi dirigo verso il punto da cui siamo partiti.
Camminando per le strade, costellate di edifici puntellati da assi di legno messi a sostegno e protezione degli edifici, vediamo le scritte fortunosamente realizzate come “firme” dei comandi dei Vigili del Fuoco, quasi a dire: questo l’abbiamo salvato noi. In queste gare di solidarietà sicuramente nessuno vince, anche perché purtroppo non c’è un primato, ma tutti ci teniamo a far sapere di aver partecipato, di aver portato il nostro piccolo o grande contributo.
La gratitudine è l’unica ricompensa del volontario.
Immortalando qualche altro scenario ritorno alla piazza del Duomo. I nostri custodi della Polizia Municipale si assicurano che tutto sia a posto e forniscono qualche informazione sul nostro prossimo obbiettivo. Poi saliamo a bordo dei nostri veicoli e ci muoviamo, aspettando di sapere cosa ci aspetta.
In realtà non c’è molto da sapere, è un’altra zona della città ampiamente distrutta. Loro si fermano, anche noi; scendiamo, rimettiamo i caschetti ed in pochi minuti siamo di nuovo all’opera. Mi addentro scendendo in una rampa che sembra condurre a dei box per auto; mi accorgo che conduce ad un cortile, alzo gli occhi e mi si palesa una scena che mi lascia senza fiato: un palazzo di sei-sette piani, come se fosse stato affettato, manca un angolo che comprende, apparentemente, un paio di stanze, per tutta la sua altezza. Si vede chiaramente la fila di cucine, una sopra l’altra, tutte ugualmente sventrate; dei primi due o tre piani si può intravedere anche l’arredamento, degli altri solo intuire.
Sono piuttosto avvezzo a confrontarmi moralmente con catastrofi e disgrazie, ma questa visione ogni tanto mi ritorna in mente; mi ha colpito e segnato.
Esco un po’ stralunato, continuo a camminare; c’è una strada, si chiama via delle buone novelle, spero, ed in cuor mio mi auguro, che a queste persone le buone novelle possano giungere presto. E che siano semplici ma piacevoli, come l’aria fresca in estate, o come un bicchiere di vino in buona compagnia, o come ognuno di loro può desiderare.
Faccio un piccolo bilancio del lavoro fatto, consulto la mappa, ipotizzo di essermi fatto una gran parte del centro storico, la cosiddetta “zona rossa”. Penso che può bastare, mi dirigo verso la macchina, a poca distanza incontro Gabor, anche lui ritiene che può bastare. Raggiungiamo la macchina e comunichiamo alla scorta che abbiamo finito. Ci dicono di aver parlato col capo-campo e che dobbiamo tornare al campo per il pranzo, poi nel pomeriggio ci sarà assegnata una nuova scorta. Saliamo a bordo e partiamo. Tra me e Gabor non ci sono molti commenti, solo “che disastro”. Seguiamo quasi meccanicamente la macchina della Municipale che ci precede. Dieci minuti e siamo al campo. Ci dirigiamo verso il tendone mensa, qui avviene il primo vero incontro con persone sfollate; ci sono persone in fila, noi abbiamo in mano le nostre telecamere, spente, ma solo per questo destiamo una certa curiosità, qualche sguardo è un po’ diffidente. Strane sensazioni, non conosci nessuno ma ti salutano in tanti. Siamo qui solo per dare una mano. Siamo qui, arrivati tra voi da terre lontane, siamo qui come voi a dormire nei campi in queste notti di lampi. La piccola gente ci guarda male, fa finta di niente ma in fondo ci vuole, apprezza il nostro aiuto in questa terra dal futuro incerto. Inseguendo questi pensieri apparentemente in modo rapido si consuma la coda, prendiamo un vassoio da self service, ci mettiamo sopra qualcosa e ci sediamo. La qualità del cibo è decente, l’appetito un po’ meno. Mangiamo e siamo di nuovo pronti a partire. La nuova scorta questa volta è operata dalla Polizia Municipale di Viareggio; ci conducono a Sant’Angelo, un paesetto a circa 20 minuti di strada. Prima passiamo al Campo, che è gestito dalle ANPAS dell’Emilia Romagna; un campo grande, ben ordinato e appare anche ben organizzato. All’ingresso una sbarra e personale dell’Associazione Nazionale Carabinieri che controlla chi entra; l’impatto è un po’ sgradevole. Pensando a chi vi risiede, anche se viene una parente a fargli visita deve accreditarsi; purtroppo in ambiente così promiscuo e vulnerabile un po’ di controlli sono indispensabili per garantire un minimo di sicurezza, anche a scapito di un po’ di libertà. Questo è uno degli aspetti che sfugge a chi non è mai stato sul posto, a chi non ha vissuto questa esperienza. Entriamo nel campo, facciamo un giro, telecamere spente, non per disposizione ma per scelta, che matura dopo i primi passi nell’area tende. Le tende sono state montate secondo gli schemi, ma poi gli abitanti hanno cercato di personalizzare lo spazio intorno alla propria tenda, con i loro vasi di piante, qualcuno con tavolino e sedie in plastica; anche gli stendini carichi di abiti lavati fanno mostra di se. Sbirciamo dentro le tende, c’è solo spazio per le brande; un paio di signore anziane stanno sedute sull’angolo di una branda, io e Gabor ci avviciniamo l’un l’altro e, sottovoce, parlottiamo un po’, decidiamo di non riprendere. Non perché vi sia nulla di sconveniente ma, più semplicemente, perché non ci pare opportuno entrare in quel brandello di vita privata che a questa gente è rimasta.
Finito il nostro giro, che in realtà abbiamo molto limitato, torniamo all’ingresso del campo nell’area comune, che poi è il tendone mensa e lo spazio antistante; dentro il tendone qualcuno guarda la tv, qualche bimbo gioca, una psicologa parla con una ragazza. Fuori gente che parla, a gruppetti; qualcuno organizza qualcosa. Ripartiamo col nostro piccolo bagaglio arricchito della semplicità e della serenità con cui queste persone affrontano il loro disagio. Il nostro capo-scorta, invitandoci a seguire il suo gesto con lo sguardo, ci indica col dito una frazione, poche case arrampicate su di una costa di collina; saranno distanti pochi chilometri, dice che quella sarà la nostra prossima meta. Partiamo; la strada che dopo poco imbocchiamo passa proprio sotto il paesetto. Ci fermiamo, guardiamo. Il paese, si chiama Tuccillo, è semidistrutto; una lunga ferita di case crollate ed accartocciate lo taglia in due parti, nel mezzo, dall’alto in basso, come se si fosse improvvisamente aperta una voragine che ha sconquassato tutto: l’impatto di questa immagine è molto forte. Le strade d’accesso al paesetto, totalmente evacuato, sono chiuse, ma con un po’ di destrezza riusciamo ad entrare; anche qui tutto è deserto, arriviamo ai piedi della zona più disastrata, facciamo un po’ di riprese. Saliamo ancora, fino ad arrivare alla metà della ferita; doveva essere il centro del paesello, stradine strette piene di calcinacci, pietre, strade di scalini che s’inerpicano insinuandosi tra le case, non ci avventuriamo: troppo pericoloso. Facciamo ancora qualche ripresa e poi ce ne andiamo. Sulla strada che percorriamo a piedi per tornare alle nostre auto la scorta ci indica un altro paese in basso, di fronte a noi, poco spostato a destra; è Sant’Angelo, ci dice che andremo lì. Già da lontano si scorgono case totalmente distrutte, qualche tetto rimasto intero, adagiato sopra le macerie oppure scivolato in basso sul selciato. In pochi minuti arriviamo a sant'Angelo; la strada d'accesso è chiusa con uno sbarramento di fortuna, fatto con un telaio in tubolare e una rete di contenimento arancione. La nostra scorta sa come aprire; entriamo. Un'altro paese fantasma fatto di macerie, case crollate accanto a case meno devastate, unica forma di vita un gatto che spadroneggia, vagando fiero ed indisturbato. Un po' più in là invece troviamo anche un cane; ha l'aria molto più dimessa del gatto, quando ci vede ci viene incontro lentamente. Uno degli agenti lo avvicina, sembra mansueto, ma l'agente è ovviamente piuttosto prudente; è il cane a manifestare per primo le sue non bellicose intenzioni, si para verticalmente davanti all'agente e poi gli si distende davanti adagiandosi sulla schiena con le zampe in alto, nella posizione più dimessa che riesce ad assumere. Mendica una carezza; lo guardiamo inteneriti, l'agente non indugia più, si accoscia e inizia ad accarezzarlo. L'animale docile lo ringrazia, ricambiando strofinando il muso sulle sue cosce e poi leccando dolcemente le mani che l'accarezzano. Dopo qualche istante in cui tutti in silenzio osserviamo la scena, accendiamo le telecamere e le macchine fotografiche, riprendiamo e fotografiamo, mentre anche gli altri agenti si profondono in carezze al nostro padrone di casa. Neppure Gabor ed io ci sottraiamo a questo rituale, al rendere omaggio a questo piccolo povero superstite della catastrofe. E' stata una parentesi molto intensa, toccante, che ci ha fatto prendere, se possibile, ancora più atto della portata e dell'entità della potenza distruttiva del sisma, di cosa potrebbe accadere se non vi fossero soccorsi, solidarietà. Certamente tutte le persone hanno avuto soccorsi e solidarietà, qualche animale meno, come è ovvio che sia; questo ci ha insegnato ad apprezzare ancora di più il valore della solidarietà.
Lasciamo Sant'Angelo; la scorta ci accompagna nuovamente al campo dove sono alloggiati i profughi del paese. É quello dove eravamo già stati qualche ora prima; dovremo cenare lì e poi fare delle riprese per documentare lo spettacolo organizzato per la popolazione.
All'ora di cena mancano ancora alcune ore, il tempo è nuvoloso, minaccia pioggia, ma riteniamo di non sprecare neppure un'ora e decidiamo di andare a fare un sopralluogo a Onna, che abbiamo visto sulla strada, essere piuttosto vicina. Ci mettiamo d'accordo col personale del campo per la cena e poi partiamo. In circa un quarto d'ora raggiungiamo Onna. L'unica strada di accesso è chiusa con cancelli appositamente montati e l'ingresso sorvegliato da agenti della Guardia Forestale. Sul cancello un cartello informa che un'ordinanza vieta tassativamente l'accesso alla frazione. Parliamo con l'agente di sorveglianza, gli spieghiamo chi siamo e cosa dobbiamo fare. Con molta cortesia ma in modo fermo ci dice che proprio non si può. Non insistiamo. Già quel che si può vedere restando all'esterno è scioccante. Facciamo qualche commento, poi l'agente ci indica più avanti un piccolo accampamento dei Vigili del Fuoco; ci dice che gli unici che possono autorizzare l'ingresso sono loro, ci suggerisce di rivolgersi lì. Ci andiamo, facendo qualche passo; quello che era l'abitato è sulla nostra sinistra. Ci incuriosisce un recinto di fortuna fatto con rete oscurante; cerchiamo di insinuare lo sguardo all'interno. É solo un deposito di autovetture ammaccate, lesionate, semidistrutte dai calcinacci che gli sono caduti addosso; guardiamo, commentiamo un po', ma rispetto a quel che abbiamo visto nella nostra giornata e a quel che sta a pochi metri al di là della strada è davvero poca cosa. Arriviamo all'accampamento dei Vigili del Fuoco, la giornata volge alla fine, li troviamo impegnati a fare una foto ricordo con l'autoscatto; ci offriamo di collaborare, accettano con piacere. Ci raccontano che il loro turno sta finendo e che l'indomani torneranno a casa; sono di Roma, brevemente parlano della loro esperienza in quella terra martoriata. É strano come in queste occasioni cadano le barriere che ognuno normalmente si crea attorno; non è importante se ci si da del tu o del lei, e anche se non ci si conosce si parla, si ha voglia di raccontarsi, di commentare, di confrontarsi, spesso non ci presenta nemmeno e però passi del tempo a parlare e non conosci neppure il nome delle persone che hai davanti. Tutto si svolge con naturalezza, quasi come si fosse fratelli. Fratelli di sventura.
Dopo un po' che parliamo mi rendo conto che la luce sta calando, quindi spiego chi siamo e chiedo se sia possibile entrare nell'abitato per fare qualche ripresa. Il capo squadra, con lieve imbarazzo ma senza esitazione ci spiega che non è possibile, perché è davvero pericoloso; anche loro non si addentrano mai da soli, minimo due o tre unità. Ci dice però che dall'esterno, indicandoci dei limiti di azione, possiamo riprendere. Aggiunge che quel che riusciremo a vedere sarà certamente sufficiente a documentare la situazione di questa frazione. Ci indica dove possiamo arrivare e dove è bene non sconfinare. Stiamo per muoverci per raggiungere le posizioni più adatte per iniziare le riprese quando giunge una macchina: una utilitaria carica di cose, con dentro un po' di tutto, nella nostra normalità sarebbe un’inconsuetudine, qui invece chi ha avuto la fortuna di salvare un’automobile la deve usare come armadio, ripostiglio, cassetta di sicurezza, dispensa e probabilmente anche altro. Capiamo che si tratta di una persona sfollata, si avvicina ad uno dei Vigili del Fuoco, che sta iniziando ad armeggiare un barbecue di fortuna per preparare la cena; gli chiede di poter andare a casa a recuperare dei materiali. Il Vigile, con grande cortesia, gli chiede cosa gli serva recuperare, poi chiama a voce un collega e dice di organizzare una squadra di tre persone e di accompagnare la signora. In pochissimi minuti, dopo averle fatto indossare un elmetto di quelli particolari, con la protezione anche per il collo, partono. Un Vigile davanti, come in avanscoperta e gli altri due dietro assieme alla signora. Li seguiamo con lo sguardo finché non scompaiono tra le macerie. Raggiungiamo la zona che ci è stata indicata per raccogliere un po' di materiale video ed iniziamo. Alla tv si è molto parlato della frazione di Onna ed ogni ulteriore commento è davvero difficile e certamente superfluo. In pratica non esiste più una casa intera, da quel che riusciamo a vedere dalla nostra postazione. Ci colpisce una casa bianca, rimasta apparentemente in piedi, ma in realtà è come se fosse stata affettata orizzontalmente in tre sezioni e poi malamente rimessa a posto, un po' come si fa a casa a Natale col panettone ripieno. É sconvolgente questa visione e di più sconvolge pensare a chi ci viveva, che vede la sua casa così malamente ricomposta e inservibile.
Torniamo al campo di sant'Angelo che è ora di cena; volontari, residenti, artisti che faranno lo spettacolo, tutti nella stessa fila attendono il loro turno per la cena. L’attesa non è lunga; in pochi minuti e qualche scambio di parole siamo al bancone. Vassoio in mano, scelta tra tre primi, due secondi, frutta, dolce, un cartoncino di vino. Mangiamo. Intanto i primi rumori arrivano dal tendone degli spettacoli; ci affrettiamo ad uscire dal tendone mensa. Il tendone spettacoli è proprio lì di fronte; non piove e, viste le nubi nere e minacciose, è già una piccola conquista. Sembra davvero di essere in uno dei paesi del nostro sud in estate; sul palco lo spettacolo scorre, al di fuori gente che chiacchera amabilmente, altri più concitati. All’esterno, sulla strada, arriva un pullman, un po’ di gente scende e fa ritorno alle proprie tende, altri si soffermano a parlare incrociando qualcuno. Scene di una quasi normalità. Unico rimpianto: la gente non ha la sua casa, non può ritirarsi che dentro una tenda, costretti ad una condivisione non voluta, non sempre ben accettata. I vecchi, in genere persone sagge e riservate, timide, introverse, costretti da una oscura forza della natura ad una terapia forzata.
I pensieri scorrono come la scaletta dello spettacolo e la nostra stanchezza si fa sentire; con Gabor ci guardiamo, non serve molto parlare. Basta, oltre lo sguardo, un cenno per capire che è ora di andare a dormire. Ci dirigiamo alla nostra macchina.
Il mattino seguente, oltre ai soliti rumori del campo, ci sveglia un sole che alle sette è già torrido ed il doppio strato delle tende blu lo fa sembrare ancora più cocente. Apriamo tutto quello che è possibile aprire; entra un’arietta pungente che invita ad alzarsi. Oggi ci aspetta un programma intenso: la scuola di San Demetrio né Vestini, il cui progetto di ricostruzione è stato sposato da sette delle Province Toscane. Poi una visita e pranzo al campo base della Regione Toscana. Fatta colazione e preso contatto con la nostra scorta, anche oggi operata dalla Polizia Municipale di Viareggio, partiamo. Oggi è il primo giorno feriale; ci scontriamo inevitabilmente con il traffico, che è intenso anche sulle strade statali, fortunatamente di più nella direzione opposta a quella del nostro senso di marcia. Arriviamo alla scuola che ci è stata indicata; proprio di fronte alla scuola è stata realizzata la tendopoli che accoglie gli sfollati del paese. La scuola, per quanto danneggiata, è in piedi e parzialmente agibile; vi si è insediato il C.O.M. (Comitato Operativo Misto) ovvero quell’organismo istituzionale composto da realtà del soccorso come Vigili del Fuoco, o 118, ma anche da rappresentanti delle aziende di servizi come luce, gas, ecc. e poi dalle rappresentanze di tutti coloro che partecipano ai soccorsi come Polizia, Carabinieri, Esercito, Croce Rossa, volontari ecc. É il C.O.M. che in casi di emergenza è deputato a prendere tutte le decisioni per tutte le iniziative da intraprendere.
Facciamo un rapido giro, poi ci mettiamo al lavoro; le attività didattiche sono spostate all’esterno, in due grandi tendoni bianchi. Incontriamo una maestra che ben volentieri si presta a spiegarci come è stata riorganizzata la scuola e come sono stati soccorsi. Ne emerge un quadro di disagio ma anche di gratitudine e di consapevolezza che i soccorsi hanno funzionato e che, di fronte a certi eventi, è necessario solo rimboccarsi le maniche per andare avanti ed essere grati della solidarietà.
Terminiamo di raccogliere il materiale foto e video e partiamo per il campo gestito dalla Regione Toscana. Qui l’accoglienza è un po’ tiepida, quasi diffidente, nonostante la scorta. La prima persona con cui parliamo, una delle addette alla segreteria che indossa una maglietta con i simboli della Regione, ci sta a sentire con aria di sufficienza e poi sentenzia: “se fosse per me non dovreste entrare a fare riprese per nulla, ma non sono io che decido; adesso telefono e chiedo. Aspettate qui!”. Restiamo tutti un po’ perplessi da questa esternazione. Intervengo e suggerisco: “magari riferisca che ci potremmo limitare alle aree comuni”; la nostra interlocutrice, nell’atto di allontanarsi, mi rivolge uno sguardo e annuisce senza proferire parola. Rientra nella sua tenda, telefona, parla a lungo, poi chiusa la telefonata viene e ci informa che dovremo attendere il capo-campo, che dovrà accompagnarci e che, limitatamente alle aree comuni, siamo autorizzati a fare riprese e foto. Ci intima di consegnargli i nostri documenti per la “registrazione”; seppur perplessi obbediamo.
Il capo-campo giunge nel giro di pochi minuti; è un volontario di un’associazione di Livorno. Sui quaranta, come tutti i livornesi simpatico, già a sentirlo parlare ti migliora l’umore. Con un po’ di imbarazzo, ma anche con molta cortesia, ci porta in giro per il campo, un ex campeggio riadattato; ci racconta la sua esperienza, ci dice che è già al terzo turno in quel campo, quando accenniamo all’accoglienza non proprio “adeguata” che abbiamo ricevuto si chiude e parla d’altro. Capiamo che non è il caso di approfondire quell’argomento e lo seguiamo nella sua conversazione. Intanto continuiamo assieme la nostra perlustrazione del campo. É ora di pranzo, che per altro consumiamo in modo rapido in quanto composto da un piatto di pasta, poi una specie di torta di patate e delle verdure saltate. Da bere solo acqua. Penso fra di me che certo non onora la tradizionale cucina toscana, ma ho la sensazione che ci siano equilibri troppo labili per rischiare di turbarli con un’esternazione forse fuori luogo. La tengo per me e la dirò poi a Gabor e alla nostra scorta. Ci congediamo, e ho la netta sensazione che questo sia vissuto dal personale della segreteria come un sollievo. Prossima tappa la tendopoli del paese; anche qui vediamo la scuola riorganizzata in tende. Ci accolgono volentieri. Ci fa da guida l’assessore, una signora sui sessanta, anche lei sfollata, con la faccia segnata da una vita dura, ma che non si fa pregare per dimostrare tutta la caparbietà e la grinta di un popolo piegato ma non domo. Ci mostra la scuola, la tendopoli. Ci racconta, ci parla delle sue aspettative di vita normale, di comuni desideri come avere un cane o una macchina nuova; ora per lei, come per tutti i suoi concittadini, il desiderio è di avere una casa in cui vivere. “Sentite?” ci dice, “fa quasi fresco e siamo a giugno, qui a metà settembre è già inverno!” Annuiamo costernati, ammettendo silenziosamente la nostra impotenza.
Finita la visita, prima di rientrare al nostro campo base, la nostra scorta ci porta a vedere un lago che, per effetto del sisma si sta morfologicamente modificando. Un albero è parzialmente sommerso, a circa cinque metri dalla riva. Intorno al perimetro molte spaccature più o meno larghe, mai molto profonde. É comunque uno scenario molto suggestivo; molte foto, un po’ di riprese e via.
Anche questa giornata è finita. Con Gabor decidiamo per una cena fuori dal campo. Per strada abbiamo visto un paio di ristoranti che, pur parzialmente danneggiati, hanno tentato di ricominciare a lavorare servendo pasti agli avventori. Decidiamo, su proposta di Gabor, che il prescelto della nostra cena dovrà essere uno di questi ristoranti, che sarà il nostro piccolo modo di contribuire fattivamente alla ripresa di questi esercizi. Dopo poco siamo seduti sotto un tendone, con in mano un foglio scritto a mano e frettolosamente. É il menù; leggiamo e ordiniamo. Mentre aspettiamo il cibo notiamo le stufe accese e ci rendiamo conto che nonostante sia io che Gabor prediligiamo il freddo al caldo, le stufette accese non guastano affatto. Ci ritornano in mente le parole sentite qualche ora prima dall’assessore; ci guardiamo e silenziosi annuiamo. La cena scorre veloce, la qualità dei cibi è buona, nonostante la precarietà delle condizioni. Il conto è più che ragionevole. Lasciamo una piccola mancia ed andiamo. Fieri del nostro piccolissimo contributo all’economia e soddisfatti per la contropartita ricevuta torniamo al campo. La serata è fresca ma non piove più. Nel tendone all’ingresso c‘è una riunione di agenti delle Polizie Municipali; pianificano delle attività per il giorno seguente. Salutiamo, qualche parola sulla giornata, andiamo in tenda e ci prepariamo per la notte.
Il mattino sembra giungere più rapido dei precedenti. Il solito rituale, andando al container dei bagni per poi far ritorno in tenda, vestirsi, sistemarsi alla meglio, pronti per un'altro giorno. Diversamente dalle altre mattine, vado a fare colazione con la telecamera in mano. L'intenzione è di fare delle riprese anche al campo che ci ha ospitato. Subito incontro una signora che mi chiede di seguirla perché c'è qualcosa che vuole mostrarmi; la seguo. La donna, sui sessanta, carnagione scura delle donne del sud, indossa un abito smanicato, di quelli da massaia; è composta e ben curata, nonostante i due mesi di sopravvivenza in tenda. Mi parla; è lei che cerca di mettermi a mio agio, mi fa capire che quello che desidera mostrarmi ha un grande valore per lei e per molti altri della tendopoli. Si muove lenta ma sicura tra le tende; capisco che deve essere una persona di grande carisma, tutti la conoscono, molti la salutano con affetto e rispetto. Arriviamo al centro della tendopoli, dove è stato collocato il vessillo tricolore della Repubblica e, ai piedi dell'alto palo su cui è issata la bandiera, è stata realizzata una piccola aiuola commemorativa. Molto curata. Me la mostra orgogliosa perché, mi dice, questo è il simbolo del forte legame che si è instaurato tra la popolazione e i soccorritori. Il simbolo dell'apprezzamento e della riconoscenza; vicino alla bandiera simbolo dello Stato gli abitanti hanno voluto realizzare una decorazione, un abbellimento. La donna parla ancora, mi mostra la “sua” tenda, il cui perimetro esterno è adornato da una fila di vasi di piante fiorite, come a segnare un confine, ma forse più a cercare di riportarsi a una normalità. Le chiedo se se la sente di farsi riprendere mentre ci racconta le sue esperienze, le sue sensazioni. Tituba un po' perché dice di non sentirsi in ordine, è spettinata. Sorrido; le dico che non è importante, che le cose importanti sono quelle che ha da dire. Accetta; posso accendere la telecamera. Ne viene fuori una bella chiacchierata, dove la donna, con grande capacità, spazia dalla classificazione dei danni, all'accampamento, alla sua casa che non è agibile, alla capacità e all'umanità dei soccorritori. In quel momento passa una volontaria della Croce Rossa che fa servizio al campo; é l'occasione pubblica per ringraziare lei per tutti i volontari che, dice, sono stati preziosissimi. Le fa cenno di avvicinarsi; spontaneamente si legano in un abbraccio, ed un bacio arriva sulla fronte della volontaria. É l'unica cosa che quella donna aveva per esprimere la sua gratitudine e, con grande slancio e riconoscenza, l'ha donata alla volontaria. Con questa scena decido di chiudere questo momento mentre, non senza un velo d'imbarazzo, cerco di mascherare il momento di emozione che questo incontro mi ha generato. Il telefono che squilla mi riporta prepotentemente alla realtà; rispondo. É Gabor che mi chiede di tornare presto alla segreteria del campo perché è arrivato un carico di aiuti, che sarà quanto prima distribuito e quindi sarebbe opportuno documentare anche questo momento. Saluto la signora, la ringrazio del suo tempo che ha voluto dedicarmi. “Grazie a voi per tutto quello che fate” si schermisce. In poco tempo sono da Gabor che, già pronto, ha organizzato tutto con l'equipaggio del mezzo che ha trasportato il carico di aiuti: un po' di coperte, tante magliette ed altri generi vari. Anche la scorta c’è; possiamo partire. Dopo una ventina di minuti di viaggio giungiamo nei pressi di una tendopoli; poco distante un tendone, allestito tipo supermercato. L'equipaggio e la scorta prendono contatto con il responsabile; si mettono d'accordo sui materiali che gli necessitano, iniziano a scaricare. All'interno del tendone un po' di tutto, dai vestiti ai materiali per pulizia, all'acqua, al latte, qualche cartello appeso da indicazioni sulle indisponibilità di beni; proprio all'ingresso leggo “il latte a lunga conservazione arriverà giovedì”. Qui i residenti nella tendopoli possono venire a ritirare ciò che gli serve, compatibilmente con le disponibilità. I volontari aprono i cartoni, controllano stato dei materiali, scadenze delle derrate alimentari, smistano, sistemano organizzano.
Sul mezzo sono rimasti ancora alcuni scatoloni; dopo averne verificato il contenuto e fatte un paio di telefonate, il responsabile ci indirizza ad un'altro campo. Partiamo; la scorta ci avvisa che, a causa di una strada interrotta, dovremo fare un giro un po' più lungo. Dopo oltre mezz'ora di strada, arriviamo ad una tendopoli; l'equipaggio e la scorta cercano il capo campo, parlottano un po' e poi il capo-campo fa una telefonata e annuncia che probabilmente c'è stato un equivoco perché loro, al momento, non necessitano di nulla. Tutto va riportato indietro, al campo base Firenze da dove siamo partiti. Lì Paolo, il nostro attivissimo capo-campo, ha già trovato una collocazione diversa. Nei giorni della nostra permanenza questo è stato il solo piccolo inconveniente; commentando con Gabor l'accaduto concludiamo che, in effetti, la macchina dei soccorsi è ben strutturata e funziona piuttosto bene.
Torniamo al campo; il materiale è temporaneamente sistemato nel tendone delle riunioni, accanto alla segreteria ed all'ingresso del campo.
Ormai la nostra missione si avvia rapidamente al termine. Il tempo di qualche altra ripresa a quello che è stato, per qualche giorno, anche il nostro campo; l'espletamento delle formalità burocratiche e i saluti. Quello dei saluti è un rito che richiede un po' di tempo. Anche se sono stati pochi giorni sono stati molto intensi; tante sono le persone con cui abbiamo condiviso questo frammento di vita e, chissà perché, nelle difficoltà le relazioni si stringono sempre di più, le nostre barriere si abbassano, ci si sente più legati, più vicini... più umani.
Nella mia mente un paragone: mi sento più legato a tante persone sconosciute prima di questi tre giorni, che non a tante persone con cui ho condiviso gli stessi tre giorni di tanti convegni e che prima conoscevo. Il rito dei saluti si protrae, anche perché Gabor è molto più socievole di me e quindi impiega di più per i saluti e gli scambi di numero di telefono o di indirizzo e-mail; poi lui è il capo missione, ha svolto questo ruolo in modo encomiabile, e quindi ha inevitabilmente più rapporti da cui congedarsi. Quando è pomeriggio fatto siamo pronti alla partenza; seppur stanchi non vorremmo partire.
La ragione ha il sopravvento sull'emozione e la macchina parte. La giornata limpida, mentre raggiungiamo l'autostrada, ci mostra L'Aquila, ferita ma fortemente viva, adagiata nella sua culla ai piedi del Gran Sasso, ancora variegato da strisce di neve. Le cinzioni e i puntellamenti danno alla città l'apparenza di un trucco rock, in contrasto con l'aspetto romantico dello scenario. Penso che sotto questo trucco rock-romantico, questa terra ha pianto i suoi morti ed adesso l'estate che arriverà e durerà poco sa di freddo che va via, sa di voglia di ricominciare. La voglia tenace di questa gente che abbiamo incrociato e sfiorato, le loro grandi speranze. Grandi speranze all'uscita delle tende al mattino, con i volti induriti dal dramma di qualche settimana fa, ma con l'aspettativa di un miglior destino che è promesso dalle televisioni in ogni tendopoli. Con la mente ingombra, penso alle storie che continuano, mentre il vento spettina il Gran Sasso e speriamo che non piova più, ma sopratutto che non tremi più. Con un mio pensiero volo come un'aquila sulla vetta del Gran Sasso e voglio concludere dicendo a modo mio che cosa spero io. Che nelle nostre vite affollatissime troviamo sempre il tempo di raggiungere queste persone che hanno bisogno di noi; domani o tra un mese, non importa che sia presto o più tardi, ma comunque in tempo per non perdersi. Grandi speranze di normalità, di estati con feste di piazza, con i tipici sapori e colori del nostro sud, dove le donne vanno a fare il giro del paese per farsi guardare ed i ragazzi si trovano davanti alla giostra dove si spara e se fai centro ti fanno la fotografia. Tante speranze sotto uno spicchio di luna, che timidamente si intravede all’orizzonte, per ognuno che aspetta qualcuno, perché... come diceva una mia amica... per gli altri “gli altri siamo noi”.
P.S. per aver maggior cognizione degli aspetti pratici che ho tentato di descrivere in queste righe potete vedere i filmati e le foto nella sezione centro documentazione.