Sta bene… il piccolo sta bene… l’abbiamo anche già dimesso…
Sta bene… il piccolo sta bene… l’abbiamo anche già dimesso…
È ormai quasi un giorno che queste parole mi tornano in mente, quasi come una piacevole ossessione generando altri pensieri, sensazioni! Tutto è iniziato quando per una normale questione di lavoro ho chiamato il centro pediatrico di trapianti di midollo di Pisa; oltre alle normali questioni relative alla nostra collaborazione, mi è venuto spontaneo, così spontaneo che al momento di iniziare la telefonata l’idea non mi aveva nemmeno sfiorato, chiedere notizie del piccolo bimbo che nello scorso gennaio era stato sottoposto a trapianto di midollo osseo e per il quale ero andato fino in Giappone a prendere il prezioso midollo.
Dopo chiusa la telefonata hanno iniziato a risuonarmi in testa le parole della dottoressa che segue il decorso post-trapianto… “sta bene… il bimbino sta bene” mi ha detto con quel suo dolce e caratteristico accento pisano “ha superato bene il trapianto e le sue complicanze… adesso l’abbiamo dimesso, è a casa, periodicamente viene per i controlli ma va tutto bene!”.
Ho iniziato a ricordare quando intorno alla metà di gennaio avevo ricevuto la telefonata “Abbiamo bisogno di voi… abbiamo un bimbo che deve fare un trapianto, ma l’unico donatore è in Giappone, ce la dobbiamo fare… per favore aiutateci!” questo era più o meno il disperato appello!
La nostra organizzazione è sicuramente una delle più specializzate al mondo per la logistica dei trapianti, ovvero tutti gli aspetti organizzativi e di spostamento e trasferimento necessari perché un trapianto possa avvenire, ma il Giappone sembrava così lontano, ed in effetti lo era, per arrivarci bisognava andare a vedere l’altra faccia della luna…, così lontano che a pensarci faceva quasi paura.
Ma c’era il nostro piccolo uomo che reclamava il suo diritto alla vita e non potevo togliergli questa opportunità. Ricordo ancora che insieme a tutto il nostro staff ci mettemmo al lavoro per cercare di capire se realmente vi fosse la possibilità di fare questo trasporto. È forse necessario dire che pianificare un trasporto di questo tipo comporta, di per sé, grosse difficoltà organizzative. Si deve anche considerare che il viaggio deve durare il meno possibile e comunque al massimo 36 ore, per limitare più possibile di compromettere la vitalità delle cellule da trapiantare.
Ci mettemmo subito al lavoro con il nostro staff organizzativo. Fatte una serie di verifiche valutammo che il viaggio poteva essere fatto in circa 33 ore, quasi al limite, ma si poteva fare! Parlammo con il direttore del centro trapianti pisano che ci ringraziò per la disponibilità e disse che per lui potevamo procedere… Ovviamente prima possibile! Era necessario pianificare tutto con meticolosa perfezione, perché il minimo contrattempo poteva generare un ritardo che poteva essere fatale.
Fatti tutti gli adempimenti… partenza!!! Dopo un viaggio interminabile arrivai a Osaka, aeroporto bellissimo, struttura ultramoderna, che ti fa capire chiaramente che il senso di tecnologia dei giapponesi che trasuda fino da noi è realtà!
Tutto molto bello e, anche per effetto della stanchezza, mi sembrava un sogno. La realtà però era appena fuori la porta, a parte un vento gelido la cui sferzata sicuramente mi svegliò, ma dovevo iniziare a fare i conti con le usanze dell’altra parte del mondo. Intanto, chissà perché, hanno la pessima abitudine di mettere dei disegni per lo più di forma incomprensibile al posto delle scritte! In effetti per loro erano scritte che essi comprendevano benissimo, ma per me… e poi, ero convinto che tutti o quasi, parlassero inglese; la convinzione mi veniva dagli sciami di giapponesi armati di macchine fotografiche che trovo spesso in centro. Ho dovuto rivedere totalmente questa mia convinzione; pochissimi parlano inglese e con una pronuncia pessima. Ho realizzato inequivocabilmente che potevo avere dei problemi di comunicazione. Meno male che l’organizzazione sanitaria giapponese aveva assicurato che avrebbe messo a disposizione un assistente per portarmi dal mio albergo all’ospedale e poi all’aeroporto. Dovevo solo, si fa per dire, raggiungere il mio albergo nella cittadina di Nara, che dista circa 120 km da Osaka. Riuscii con un po’ di fatica e tanta buona iniziativa a sapere che c’era un treno che ci andava e che ci avrei impiegato un paio d’ore perché, se ben avevo capito, dovevo prima andare in centro a Osaka e prendere un altro treno. Insomma senza perdermi d’animo con i dovuti sforzi, resi ancor più acuti dalla stanchezza, arrivai a Nara; ricordo che lì era tardo pomeriggio e l’hotel era proprio davanti alla stazione… per fortuna!
Salii in camera e adempii al'ultimo dovere prima di potermi riposare: chiamai l’ospedale per confermare il mio arrivo e prendere gli ultimi accordi, mi dissero che il midollo sarebbe stato pronto per le 10.30 e che alle 09.30 la persona da loro incaricata sarebbe stata nella hall dell’albergo ad attendermi. Non cenai; feci una lunga doccia e tentai di dormire. Ma un po’ a causa del jet lag, un po’ per il pensiero ricorrente del piccolo che attendeva il mio arrivo a Pisa, non dormii moltissimo ma al mattino mi sentii comunque in forma; l’adrenalina iniziava ad entrarmi in circolo. Erano le 09.25 quando scesi nella hall: mi si fece incontro una fanciulla, una figura alta, esile, con i capelli lunghi neri, che mi incrociò chiedendomi “Mister Pieraccini?”. “Yes” risposi e lei, in un inglese migliore della media di quei pochi giapponesi che parlano inglese, replicò “sono l’incaricata dell’organizzazione sanitaria giapponese, che dovrà assisterla per i suoi spostamenti”. Rimasi perplesso un attimo: come “assistermi” mah, sarà un modo di presentarsi giapponese - pensai - qui hanno, come ovvio, le loro particolarità, per esempio per salutarsi non è consuetudine stringersi la mano o abbracciarsi, a seconda del grado di confidenza, ma è usanza fare un inchino piuttosto composto.
La ragazza mi sembrava molto giovane, anche se poi nel corso della giornata ebbi modo di scoprire che aveva 34 anni, e qualche perplessità ce l’avevo; cercai ovviamente di mascherare al meglio questa mia sensazione di disagio e dopo qualche frase di circostanza pagai l’albergo e la seguii. Usciti in strada mi aspettavo di vedere una macchina sanitaria o al limite un’ambulanza per gli spostamenti. Pensai anche: magari hanno fatto le cose in grande e c’è un’autista. Magari! Seguendola nei suoi passi brevi e rapidissimi, mi resi conto che si stava dirigendo verso la stazione, che era sempre nelle vicinanze dell’albergo; mi venne un sospetto che presto si tramutò in realtà, quando lei mi disse nel suo solito inglese impastato “adesso dobbiamo prendere un treno per 30 minuti, poi arriviamo a Tenri e quindi prenderemo un taxi o un pullman fino all’ospedale”. Annuii silenzioso e sempre più perplesso, il pensiero andava al bimbo di Pisa, gli parlavo come se fosse lì, “tranquillo, non perderti d’animo… ce la faremo” ma era più per far coraggio a me stesso, confinato dall’altra parte del mondo, con difficoltà di comunicazione e con una pseudo assistente che in realtà era poco più di un’interprete; perché, sempre nel corso della giornata, mi raccontò che lei lavorava all’ufficio centrale di Tokyo, da dove non si era mai mossa, e che era stata inviata lì appositamente per aiutarmi e, al contempo, fare pratica. Ma Tokyo era a 600 km! un po’ come se prendessimo un medico del San Raffaele di Milano e lo mandassimo a fare da guida in un paesetto dell’interland Flegreo! Voglio anche dire che Azusa, questo era il nome della fanciulla, era molto gentile e disponibile, ma poco avvezza a muoversi in ambienti nuovi, cosicché io che passo molti giorni all’anno in giro per il mondo, dopo poco avevo di nuovo in mano il bandolo della matassa. Con Azusa nacque comunque una buona intesa; un accordo non scritto che si basava sul fatto che lei mi leggeva le indicazioni e parlava con quelli che non parlavano inglese ed io prendevo le decisioni operative.
Così in circa 45 minuti arrivammo all’ospedale di Tenri; questa piccola città enclave dell’integralismo buddista, un po’ mi disse Azusa, come la Città del Vaticano per i cattolici. L’ospedale era in una costruzione piuttosto vecchia e grigia, avrebbe fatto netta contrapposizione con lo sfavillio dell’aeroporto di Osaka. Azusa mi introdusse e mi guidò fino al reparto dove ci avrebbero consegnato il prezioso midollo per il nostro piccolo malato, a cui ritornò il mio pensiero: “hai visto ce l’abbiamo fatta, abbiamo trovato il posto, adesso ce lo portano” mi rassicurai. Ci invitarono ad accomodarci in una stanza un po’ semibuia, piena di libri, che scoprii poi essere la biblioteca dell’ospedale, perché era l’unico luogo in cui era consentito l’accesso a personale che non appartenesse allo staff ospedaliero. Attesi circa mezz’ora, che sembrò una vita, durante la quale ripassai mentalmente tutti i passi del trasporto. Tutti i gesti, tutti i momenti che avevo già vissuto tante volte e che conoscevo bene, più che bene!, che avevo anche insegnato a tanti colleghi nel momento della loro iniziazione, mi scorrevano di fronte in ordinata sequenza, sempre la stessa, sempre precisa. Non c'era motivo di preoccuparsi: sapevo quello che dovevo fare, quello che avevo sempre fatto e che nel tempo mi ha valso tanta stima. Ma quella volta era diverso, tutto era di un importanza fondamentale: non potevo e non volevo sbagliare. Per me, ma soprattutto per il mio piccolo ammalato, che sentivo sempre più vicino a me.
Finalmente arrivarono i due medici con le preziose sacche a distogliermi dai miei pensieri. In perfetto stile giapponese, ci salutammo molto ossequiosamente scambiandoci gli inchini e, per il loro senso di ospitalità, vollero stringermi la mano, stretta che io ricambiai con grande vigore e cortesia. Quindi portammo a termine gli adempimenti, feci scrupolosamente tutte le verifiche che tutto fosse in ordine, secondo le richieste dall’ospedale di Pisa e finalmente potei riporre nel mio speciale contenitore le sacche con il midollo.
Firmammo qualche carta e, con un susseguirsi di inchini e strette di mano analogo al precedente, io ed Azusa ci congedammo.
Da adesso non avrei più potuto permettermi alcun sbaglio, nessuna distrazione: avevo in mano la vita di un bimbo e dovevo portargliela perché lui continuasse ad essere la gioia del babbo e della mamma, perché potesse tornare ai suoi giochi di bimbo, perché potesse pensare alle fidanzatine di ragazzo, perché potesse essere uomo! Perché è indispensabile fare di tutto per sconfiggere una tremenda malattia che avrebbe voluto portarselo via, ma noi, tutti noi che abbiamo sapientemente e generosamente collaborato, questa volta siamo riusciti a non permetterlo!
Questi ed altri pensieri, con analoghe divagazioni, mi hanno accompagnato per tutto il lungo, lunghissimo viaggio, fino a quando, finalmente, il terzo aereo non ha toccato terra all’aeroporto di Pisa.
La sagoma familiare di un’auto grigia con una luce lampeggiante blu, che mi si appalesò appena messo piede sulla scaletta dell’aereo mi confermò in modo inequivocabile che ero arrivato, che ci eravamo riusciti. Ancora frastornato, strinsi un breve abbraccio con il collega che mi era venuto a prendere. Ancora una breve corsa, l’ultima per quella missione, verso l’ospedale; era mattina, c’erano tante persone, molte mi guardavano quando con il mio aspetto stravolto e la preziosa valigetta fortemente stretta nella mano mi muovevo, stanco ma risoluto, per i corridoi dell’ospedale. Nella saletta fuori dal centro trapianti c’era gente e quando arrivai fui accolto da un silenzio, improvviso, quasi irreale, ed un’infermiera mi guardò e sorridendo, prima che io potessi proferire parola alcuna, mi apostrofò dicendo “penso che stiamo aspettando lei… venga con me”. Mi introdusse, previa adeguata vestizione, in un ambulatorio, dove c’era un movimento di personale, eccitato ma composto e ordinato; tutti sapevano cosa dovevano fare ed erano pronti a farlo. Come tirai fuori le sacche, ognuno di loro diede inizio al suo compito ed in brevissimo la stanza fu vuota. Rimase solo uno dei medici, col quale sbrigammo le formalità burocratiche, che non possono mai mancare. Salutai ed uscii; nella saletta si rifece il medesimo silenzio irreale che mi aveva accolto qualche minuto prima al mio arrivo, ebbi la sensazione che qualcuno, durante la mi assenza, avesse detto cosa stava accadendo, perché mi resi conto di essere oggetto di attenzione. Con un po’ d’imbarazzo, perché non sono avvezzo a queste cose, salutai e me ne andai.
Avevo portato la vita, adesso prima del trapianto, come avevo fatto più volte durante il viaggio, feci un ultimo discorso al mio piccolo amico, che ormai sentivo come molto di più di un amico: “ce l’abbiamo fatta, te l’ho portato. Adesso tocca a te! sii forte! ce la devi fare, i dottori sono bravi, ti cureranno bene e tu mettici tutta la tua forza ed il tuo entusiasmo di bambino! questa vita, anche se dura e a volte difficile, è bella e non devi lasciartela sfuggire… come tu ti sei fidato di me fino a ora… anche io mi fido di te... so che ce la farai!!!”.
A distanza di tempo è stato davvero emozionante e commovente sapere che sei tornato a casa con il babbo e la mamma, ai tuoi giochi e alla tua vita; sono felice! e mi sono sentito utile.