Lì dove il mare luccica
Quella mattina mi svegliai col sorriso, canticchiando, come tutte le volte che sai che parti per una nuova missione salvavita.
Un po’ di nebbia surgelata annunciava che eravamo solo il primo giorno di marzo e la primavera era di là dal fare capolino.
Ma canticchiavo “lì dove il mare luccica” perché mi aspettava proprio il “golfo di Surriento”.
Missione nazionale in auto con un’amica volontaria, ma che si annunciava come un perdifiato in giro per l’Italia: Firenze-Napoli-Cuneo-Firenze.
Alle sette di mattina si parte dalla sede con l’auto di servizio: la nostra rassicurante Croma, che ci apre la strada verso sud, fra un’alba rosata di rugiada e una colazione al volo in autogrill verso Montepulciano.
La striscia d’asfalto scorre sotto i nostri i pneumatici con una regolarità di crociera perfetta.
Ascoltiamo musica, ci canticchiamo insieme sopra e ammiriamo il paesaggio toscano sinuoso delle colline sfumare nel verde umbro e nelle rocche antiche che annunciano il Lazio, proprio lì, fianco Autostrada del sole.
Quasi a Roma. Un’occhiata veloce all’orologio e la certezza che, prima del ritiro (fissato per le quattordici), un bello spaghetto mare vista Vesuvio e “golfo di Surriento” non ce lo toglie nessuno!
La strada è libera, il sole tiepido alto in cielo e Napoli è già qui; col suo traffico pazzo, i suoi colori mediterranei, le sue voci urlanti e i suoi paesaggi mozzafiato.
La tangenziale ci butta lassù sulla panoramica, fra le eleganti ville di Posillipo, per poi ridiscendere verso la passeggiata di Via Caracciolo.
Per noi è l’ora dell’appuntamento con lo spaghetto mare. Relax con vista “là dove il mare luccica”, con i sapori partenopei a deliziare le papille gustative e poi via, verso l’area ospedaliera dove ci aspettano.
Il traffico impazzito e intrecciato dell’ora del passo ci fa capire che ci siamo all’area ospedaliera… solo che non è così facile raggiungere il nostro padiglione, né con l’auto, né a piedi, dato che Napoli è molto folcloristica anche nei parcheggi e nella segnaletica ospedaliera.
Fra auto impazzite che s’infilano in ogni cancello e salgono su tutti i marciapiedi e padiglioni senza capo né coda, alla fine, guidati da un simpatico portantino che ci conduce per scorciatoie sotterrane fatte di muffa e garage alternati a padiglioni fatiscenti, arriviamo al cospetto del medico di turno che ci aspettava.
Pacioso e accomodante, quasi bradipo nei movimenti, ci fa sedere nel suo studio avvolto dal timido sole marzolino in attesa della donatrice che ci voleva conoscere.
Strana questa cosa; con la collega ci guardiamo perplesse, ma del resto è strana questa missione, quasi unica.
È una donazione familiare e noi stavamo per conoscere una sorella che donava parte di se stessa al fratello maggiore, emigrato a Cuneo.
Dopo pochi minuti di attesa entra nella stanza come un fulmine una donna di mezz’età piccola e rotondetta.
Si sofferma sulla porta, ci guarda intensamente con gli occhi inumiditi dalle lacrime, spalanca le braccia in un abbraccio che si annuncia come totalizzante.
Si lancia e in un attimo è da noi. Ci soffoca in un abbraccio generoso e commosso.
Singhiozza ad alta voce con mimica e tonalità tipicamente partenopei: “Siete degli angeli mandati dal Cielo per salvare mio fratello. Vi affido questa parte di me per salvarlo. Mi raccomando, andate a modo per strada, non mi fate stare in pena”.
Rimango rigida, quasi impietrita, impacciata e bloccata da quell’enfasi e dal mio voler apparire distaccata. Guardo la collega e vedo che fa lo stesso.
L’emozione mi assale, mi sento avvampare le guance, bagnarsi gli occhi, ma cerco di mantenere il controllo anche al costo di poter apparire fredda temendo di dare una cattiva impressione.
Del resto, in quel momento sono un soldatino che non può far altro che portare a buon fine la sua missione; anche se quella sorella e il suo emozionale essere non può fare a meno di coinvolgermi.
Alla fine mi lascio andare. Mi sciolgo un po’ e contraccambio con un sorriso timido.
La salivazione azzerata che mi aveva tenuto la bocca chiusa svanisce un po’: “Tranquilla signora – riesco a dire – faremo del nostro meglio e saremo a Cuneo appena possibile”.
Usciamo da quella stanza e da quell’incontro in totale silenzio. Con lo stesso silenzio ripartiamo in auto in direzione nord.
C’è il traffico caotico dell’ora di punta a Napoli, da scavallare prima di potersi lanciare nella corsa verso Cuneo; ma siamo ancora in una fase di limbo emozionale. Non riusciamo per un tempo indefinito, ma decisamente lungo, nemmeno a spiccicare parola fra di noi.
Quel fratello ci aspetta e noi abbiamo in auto quel grande carico d’amore fraterno.
Il Vesuvio e quel “mare che luccica” è ormai alle nostre spalle, Caianello con il suo vento costante ci annuncia un ingorgo imprevisto e un tramonto di fuoco…
Roma e il suo grande raccordo sono lì a destra, ormai si va in direzione di Firenze con le prime luci della sera e quelle della nostra auto che cominciano a fare le bizze.
Un’intermittenza improvvisa e imprevista ci annuncia che qualcosa non va nella nostra auto.
E Cuneo è ancora molto lontana.
In zona Valdarno l’ansia di quelle luci che vanno e vengono ci assale.
Cosa fare?
30 chilometri soltanto ci separano da Firenze dov’è la nostra sede e dove avremmo l’opportunità di fare un cambio auto.
Sarà un inconveniente banale o quel problema di luci ci impedirebbe di arrivare a destinazione?
Pochi chilometri per pensare e una decisione difficile da prendere.
Uscire a Firenze per cambiare auto e perdere almeno mezz’ora di tempo, oppure azzardare considerando che, se l’auto poi si blocca significherebbe perdere molto più di mezz’ora?
La decisione più saggia, dopo un confronto telefonico con la sala operativa, è andare oltre Firenze; andare oltre di 30 chilometri dove ci dovremmo comunque fermare per fare rifornimento.
Conti alla mano ancora 30 chilometri per decidere ed altri 30 per poter fare eventualmente un cambio-auto volante con dei colleghi che ci avrebbero raggiunto all’area di servizio stabilita per il nostro rifornimento.
Il pannello verde annuncia Firenze Sud: ora la decisione va presa.
Meglio non rischiare di far aspettare oltre ogni tempo limite quella vita.
Cuneo è ancora molto lontana. Troppo lontana da raggiungere con un’auto che va ad intermittenza.
Decidiamo per il cambio.
Avvertiamo la sala operativa che c’invia immediatamente due colleghi all’area di servizio pattuita.
Sincronia perfetta. La raggiungiamo nello stesso momento. Giusto il tempo di scambiarsi le auto e fare rifornimento e si può ripartire.
Nemmeno un minuto sprecato… I pit stop della formula una a noi ci fanno un baffo!
L’ora della cena è appena passata; le luci della sera sono già calate su quell’autostrada dritta e particolarmente libera in quell’ora del desco.
La Versilia con il suo salmastro e le Apuane con le sue irte vette ci scorrono a fianco veloci così come le molte curve e gallerie vista mare che ci preannunciano Genova.
All’improvviso ecco però un blocco. L’autostrada proprio quando inizia a girare e salire e scendere fra i palazzoni di Genova ci sputa fuori dal casello. Blocco improvviso per urgenti lavori notturni.
Questa non ci voleva! i tempi si possono allungare considerando che il lungomare in direzione di Savona nel dopocena è particolarmente trafficato di giovani in cerca di divertimento; e così è.
Auto urbane che si confondono nel traffico cittadino con i corpulenti tir vomitati lì dall’autostrada.
Semafori che bloccano e allungano il serpentone di veicoli persi in cerca del primo casello possibile.
Finalmente eccolo!
La corsa autostradale può riprendere mentre lasciamo il mare alle spalle e ci arrampichiamo sull’Appenino ligure.
Gli occhi ormai bruciano, la tensione è alta, anche se i tempi non si sono per fortuna allungati troppo.
Tante ormai le ore alle spalle di guida; ma niente stanchezza. La voglia di consegnare quella vita e il ricordo struggente dell’abbraccio di quella sorella ormai non ci fanno sentire più né fame, né sete, né voglia di andare in bagno.
Il modernissimo e desertissimo raccordo verso Cuneo ci fa capire che ci siamo quasi.
Eccoci. Sono ormai le una di notte quando varchiamo le porte dell’ospedale di Cuneo.
Il pronto soccorso affollatissimo a quell’ora, l’infermiera gentile bionda e di mezz’età che spunta dalla penombra e ci accompagna al reparto e poi il dottore che ci aspetta; alto, magro e con gli occhiali calati a metà naso per scrutarci: “Benvenute!” dice aprendo la bocca enorme in un sorriso convinto.
Espletiamo velocemente le procedure, consegniamo la vita a quel fratello malato e il pensiero inevitabilmente va alla sorella che, sicuramente, in quel momento sarà lì, nel suo letto ai piedi del Vesuvio, insonne, a pensare a quel fratello lontano che sta ricevendo la vita.
Usciamo dall’ospedale, una brezza violenta che arriva dalle vicine Alpi ci scuote all’improvviso alle spalle. Ci guardiamo in faccia, sorridiamo e ci abbracciamo felici.
È gioia pura. Niente può la stanchezza, la fame, la sete, quelle lunghissime ore di guida consecutive davanti a quella gioia immensa. È la gioia della vita appena consegnata, quella che solo noi, volontari del Nucleo abbiamo il privilegio di provare.
Riprendiamo con calma la via del ritorno. C’è anche tempo per mangiare e per riposarsi un po’.
È l’alba di un’altra mattina di marzo, con leggera nebbia surgelata, quando parcheggiamo l’auto di servizio sotto la sede.
È l’alba del giorno dopo; è finita una missione lunga 24 ore.
Canticchiamo ancora, come il giorno prima “lì dove il mare luccica” ma questa volta non perché ci aspetta il “golfo di Surriento”.
Questa volta è perché proprio Lucio Dalla ci aveva lasciati in quel giorno, ed era stato, inconsapevolmente, il nostro compagno di viaggio.