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Gabor D.

Da ragazzo sognavo di fare il medico... ma poi le avventure della vita mi hanno portato su ben altri percorsi.

Da ragazzo sognavo di fare il medico... ma poi le avventure della vita mi hanno portato su ben altri percorsi. L'idea del medico è sempre stata correlata al concetto di poter aiutare gli altri e questo pensiero, in realtà, non mi ha mai abbandonato e anzi mi ha sempre stimolato in modo positivo verso il prossimo. Diciamo che ho sempre avuto un'immagine piuttosto idealistica dell'attività medica, in cui l'impegno si fondeva con la passione. La mia esperienza personale, dovuta anche ad un caso di embolia polmonare superato grazie alle cure mediche ma anche a tanta fortuna, mi ha portato alla convinzione sempre più forte di voler aiutare chi si trova suo malgrado in stato di bisogno ed ha quindi rafforzato i miei convincimenti. Dei miei mancati studi di medicina, la cosa che più di tutte mi incuriosiva era il funzionamento del corpo umano... questa “macchina” così complessa quanto affascinante. Sono sempre stato curioso di sapere come i vari organi interagiscono fra di loro per poter raggiungere il funzionamento che conosciamo; mi ha sempre incuriosito il fatto di come poter curare e alleviare eventuali sofferenze dell'uomo. Mi sono sempre domandato come si possano curare eventuali malattie o insufficienze fisiche... e di fronte a questa domanda mi sono sempre raffigurato un'enormità di cose da scoprire. Un giorno, condividendo con mio cognato queste mie elucubrazioni, gli espressi un mio desiderio: mi sarebbe piaciuto entrare in una sala operatoria per poter vedere da vicino il funzionamento degli organi umani. Con mio grande stupore lui mi rispose che la cosa era fattibile, in tempi e modi compatibili col mio lavoro: avrei dovuto seguire un breve corso e inserirmi in un percorso di volontariato atto proprio ad aiutare e coadiuvare queste attività. Beh, per me rappresentava il raggiungimento di un traguardo, il materializzarsi di un’ambizione. Così, di lì a breve, entrai in sala operatoria. Mi ricordo che ero emozionatissimo; guardai con estremo fascino ed interesse e cercai di apprendere e capire, nel mio piccolo, più cose possibili. Quella fu la mia prima volta e da allora non ho più smesso. Quell’emozione non si è mai affievolita; rafforzata da un entusiasmo dovuto alla consapevolezza di partecipare, nella mia misura, a fare qualcosa di importante e di utile verso gli altri. Dal mio primo giorno in sala operatoria sono passati diversi anni. Come già detto sopra, il fascino di queste esperienze non si è mai assopito e l'attività di volontariato mi ha reso sempre più felice e orgoglioso di quello che faccio. Un ruolo di grande responsabilità ma anche di arricchimento interiore, che ci consente ogni volta di dare il nostro contributo a salvare una vita. Cercherò di sintetizzare il processo che si svolge alla base di un trapianto di organo. Il nostro coinvolgimento si esprime nell’organizzare e coadiuvare tutta la parte logistica ed organizzativa dei trasferimenti di equipe mediche, organi, materiali biologici per analisi allo scopo di determinare il rapporto donatore/ricevente oppure per determinare l’idoneità di un organo al trapianto. Una volta che il CRAOT (Coordinamento Regionale Allocazione Organi e Tessuti) o le equipe mediche dei centri trapianto ci segnalano un’osservazione, si mette in moto il meccanismo di pre-allerta. Ottenuta, da parte delle strutture sanitarie, l’idoneità del donatore ed i nulla osta al prelievo degli organi e/o tessuti entriamo in gioco noi. Dobbiamo fissare gli orari di partenza delle equipe mediche ed organizzare tutti gli spostamenti per effettuare il trasferimento dall’ospedale di appartenenza dell’equipe a quello dove si trova il donatore. É necessario sapere che, per disposizioni sanitarie, deve essere personale appartenente all’equipe medica che effettuerà il trapianto ad occuparsi del prelievo dell’organo e del suo trasferimento presso il centro trapianti di appartenenza. In alcuni casi ci prendiamo cura anche di effettuare il trasferimento del paziente candidato al trapianto, dalla località in cui si trova all’ospedale dove verrà effettuato il trapianto. La sede centrale del Nucleo Operativo di Protezione Civile organizza tutto il piano dei trasferimenti, effettuato con mezzi forniti di sirena e lampeggiatore blu, in maniera tale da verificare che gli orari siano precisi e rispettati. In genere stiamo fuori alcune ore. In particolare mi ricordo una sera d’inverno di un paio d’anni fa, in cui portai l’equipe del pancreas di Pisa a Udine per effettuare il prelievo. Successivamente, con l’equipe e l’organo, siamo andati all’ospedale di Vicenza, dove il pancreas è stato trapiantato, in supporto all'equipe locale. Una volta riaccompagnata l’equipe a Pisa sono tornato a casa, dopo 24 ore esatte, stanco ma soddisfatto.

Il mio bagaglio di esperienze si è notevolmente accresciuto e nei ricordi sono tanti gli episodi che mi tornano in mente, ma quelli che maggiormente sovvengono alla memoria sono quelli legati ai trapianti che prevedono trasporti di midollo osseo (o cellule staminali o linfociti) effettuati da un donatore compatibile non consanguineo. Forse perché richiedono, ciascuno, per la nostra organizzazione, un tempo relativamente più lungo rispetto ad un prelievo in sala operatoria e ci arricchiscono, spesso, di esperienze di viaggio in paesi anche lontani. Infatti la compatibilità per trapianto viene cercata attraverso i vari registri nazionali (per l’Italia IBMDR, acronimo in inglese che significa “registro italiano dei donatori di midollo osseo”). Purtroppo non è semplice trovare una compatibilità e la ricerca avviene, cerco di usare un’immagine che renda l’idea, attraverso una spirale che si allarga partendo dal luogo del trapianto. Spesso capita che il donatore compatibile si trovi in un altro stato o addirittura in un altro continente. Di seguito racconterò qualcuno di questi episodi.

Uno degli episodi che per primo si affaccia alla memoria, probabilmente perché ha suscitato in me particolare emozione, è di quella volta che sono andato a prendere un midollo osseo vicino a San Francisco. Si trattava di una donazione per un bimbo ricoverato a Bologna e affetto da un tumore leucemico. Di tutto il viaggio, la parte che in assoluto mi ha lasciato il ricordo più vivo è stata la fase del ritiro e quella della successiva consegna a Bologna. Premetto che fra tutti i viaggi che avevo effettuato fino a quel momento, era la prima volta che trasportavo la speranza di vita e di guarigione (perché di questo si tratta) per un bambino. É chiaro che nella nostra attività lo stimolo emotivo è altissimo, ma quando il paziente è giovane o addirittura in tenera età a questo sentimento se ne somma, se possibile, anche uno ancora più forte di amore, dovuto forse al rifiuto che una cosa così tremenda ed ingiusta possa accadere in così giovane età, andando pesantemente a minare il diritto all'innocenza e alla gioia di vivere che tutti i bambini dovrebbero avere. Durante il ritiro del prodotto mi rammento che il medico mi consegnò un biglietto anonimo (la legge non permette che sia altrimenti e noi dobbiamo controllare che questa regola sia rispettata) scritto dal donatore: poche righe in cui augurava al paziente, chiunque esso fosse, tutto il bene possibile; un messaggio di speranza e di amore. Trascorso tutto il viaggio di ritorno sono dunque arrivato a Bologna e mi sono recato verso il reparto di oncologia pediatrica, dove sapevo che i medici mi stavano aspettando con molta premura. Giunto al piano, sono entrato nella parte accessibile del reparto, dove ho visto un signore distinto che mi guardava con molto interesse. Non era vestito in abiti ospedalieri e non avevo idea di chi fosse. Fu lui ad individuare il contenitore termico che trasportavo ed a rivolgermi per primo la parola. Mi venne incontro di qualche passo e mi chiese ansioso: “E’ lei che viene da San Francisco?”. Io rimasi stupito, non riuscendo ad individuare di primo acchito di chi si trattasse. Risposi affermativamente alla domanda e gli chiesi se facesse parte del reparto. La risposta che seguì mi fece rimanere di sasso: “io sono il padre”. Non ero preparato a questo e ricordo solo che abbracciai quest'uomo e che mi sciolsi in un pianto incontenibile. Dopo pochi istanti il medico, che nel frattempo era sopraggiunto, mi trasse d'impaccio portandomi nel suo ufficio per le formalità del caso (consegna midollo osseo e relativi documenti con le eventuali note e raccomandazioni del centro trapianti del donatore). Non ebbi modo di incrociare di nuovo il padre del bimbo, anche perché del successivo momento ho ricordi confusi, ma di certo unii all'augurio di speranza che veniva dall'altra parte del mondo, anche il mio: che suo figlio possa vivere a lungo sano e felice.

Questo ricordo mi rammenta altri due episodi ad esso correlati e che dimostrano quanto a volte possa essere piccolo il mondo. Il primo è che il coordinatore trapianti dell'università di Stanford (che si trova a Palo Alto, in California, a circa un'ora di treno da San Francisco – e lo dico perché questo avrà importanza più avanti) fu molto cordiale e nel conversare, in attesa che le cellule fossero pronte per essere da me prese in consegna per il trasporto in Italia, mi disse che aveva vissuto e studiato a Firenze, città in cui risiedo, per un paio d'anni. Scoprimmo che avevamo frequentato gli stessi luoghi e addirittura gli stessi locali; insomma fu una cosa curiosa e simpatica insieme. Il secondo episodio di questa storia è che a distanza di qualche mese mi trovai in vacanza a Monaco di Baviera con mia moglie. Eravamo seduti al tavolo di un ristorante e al tavolo vicino, a poca distanza, c'era un ragazzo giovane, apparentemente studente, solo e con un po' di voglia di chiacchierare. Stavo raccontando a mia moglie di alcuni episodi occorsimi quando il ragazzo si intromise gentilmente, scusandosi dell'interruzione e chiedendo, con uno spiccato accento americano, se avesse capito bene che io avevo rammentato San Francisco. Mi raccontò in due parole che lui era di quelle parti. Scambiate queste due battute, io proseguii il discorso con mia moglie su Palo Alto. Il ragazzo, tutto eccitato, si scusò di nuovo e mi chiese se avessi rammentato Palo Alto, che era la sua città e che poco prima mi aveva detto di essere di San Francisco perché non pensava che qualcuno, così lontano da casa sua, conoscesse Palo Alto. Quindi ci raccontò che suo padre lavorava presso l'università di Stanford e che si occupava di ricerca sulle cellule staminali. A quel punto il mio stupore e anche quello di mia moglie, si era piuttosto acuito.

Di tutti i viaggi e i trasporti effettuati in questi anni un altro episodio mi fa piacere raccontare. Si tratta di quella volta che mi recai in Repubblica Ceca a prendere delle cellule staminali. Era inverno e il tempo si stava mettendo abbastanza male. Mi trovavo a Praga e dovevo recarmi in una località distante circa 70 km. Appena mi misi in viaggio cominciò a nevicare sempre più forte. L'autostrada ben presto fu bloccata da una coda di auto in fila e riuscii a raggiungere l'ospedale (anche) grazie all'aiuto della polizia Ceca che, spiegato cosa stavo facendo, mi consentì di effettuare buona parte del viaggio in corsia di emergenza. Tante volte è capitato di dover cambiare i piani di viaggio e/o mezzi di trasporto per condizioni climatiche avverse o per variazioni dei centri trapianto dovute a svariate casistiche, ma quella volta la situazione all'aeroporto di Praga, (raggiunto dopo un viaggio in macchina piuttosto lungo ed effettuato in mezzo ad una tormenta di neve), mi sembrò molto complicata. La nevicata non accennava a diminuire e tutti i voli da e per l'aeroporto di Praga erano stati cancellati. Le piste aeroportuali di decollo e atterraggio erano piene di neve. Migliaia di persone erano in attesa e davanti ai banchi informazioni, alle biglietterie e ai banchi del check in, ovunque guardassi, centinaia di persone in fila. Purtroppo le cellule che trasportavo con me non potevano aspettare... ne andava della vita di una persona. In accordo con la sede centrale italiana (che coordina e segue sempre ogni fase logistica, dai giorni precedenti il prelievo, attraverso tutta una serie di contatti e di organizzazione dei percorsi e dei mezzi da utilizzare, passando per la verifica del ritiro, attraverso una serie di check up intermedi, fino alla consegna, in maniera da garantire in ogni momento la puntualità e l’eventuale risoluzione di problematiche che potrebbero intercorrere nel percorso di andata o ritorno) dovevo assolutamente parlare con il capo scalo aeroportuale, ma per arrivare a lui dovevo passare avanti a centinaia di persone in fila. Il timore era che queste persone, già molto tese per la situazione di incertezza e ritardi, si sarebbero molto arrabbiate, pensando che volessi passare avanti facendo una “furbata”. Una folla inferocita può essere abbastanza preoccupante. Mi feci coraggio. Alzai ben in vista il contenitore termico che conteneva le cellule e che riporta molto visibile la scritta “human organ for transplant” e insieme mi assicurai di porre in risalto il tesserino identificativo che portiamo sempre al collo. Documenti alla mano (miei e del trasporto) iniziai la scalata al banco informazioni. Mi resi conto, con sorpresa ma anche con gioia, che non ci fu nessuna protesta. Giunto a parlare con il capo servizio, spiegai quanto stavo facendo e trasportando (erano comunque già stati preventivamente informati dell'organizzazione del viaggio, come sempre in questi casi). Furono molto gentili (e la cosa, ho imparato a mie spese negli anni a giro per il mondo, non è affatto scontata; a volte deve intervenire la nostra sede, esercitando tutta la sua influenza per riuscire a far ragionare qualcuno e fargli capire l'importanza e i rischi connessi al trasporto) e mi dissero che, sull'unica pista che sarebbero riusciti a tenere sgombra dalla neve e dal ghiaccio, avrebbero dato priorità al mio volo. Ringraziai della disponibilità e mi allontanai. Nel dirigermi verso i controlli di sicurezza la folla si aprì davanti a me e fu come se tutte quelle centinaia di persone sapessero cosa stessi facendo. Ricordo che furono molti quelli che mi dettero una pacca sulla spalla e in tanti mi dissero “good luck to the patient”. Fu un episodio che, nonostante io sia già ottimista di mio, mi diede nuovo slancio di maggior stima verso il genere umano. Stima che invece ho seriamente pensato di mettere in discussione quella volta che mi stavo recando all’ospedale di Montevarchi per ritirare un frammento di materiale biologico prelevato nel corso di un intervento di prelievo di organo e da riportare urgentemente a Pisa, per effettuare tutti gli esami necessari a poter stabilire la perfetta idoneità dell’organo al trapianto. Effettuai il viaggio con una delle nostre macchine di servizio, con sirena e lampeggiatore blu accesi come mi era stato ordinato, trattandosi di analisi da compiere con particolare carattere di urgenza. L’equipe medica che avrebbe dovuto effettuare il prelievo stava iniziando l’incisione cutanea e di lì a pochissimi minuti sarebbe stato pronto il materiale da analizzare che dovevo prendere in consegna. L’autostrada era molto trafficata e in un tratto non lontano dall’uscita di Valdarno, passai dalla corsia di sorpasso per accelerare i tempi. Ad un certo punto vidi una macchina della polizia che mi seguiva. Pensavo che fossero intenzionati a seguirmi o a farmi la staffetta per l’ospedale, invece mi sorpassarono e mi fecero segno di fermarmi. Rispettai l’indicazione e, appena si avvicinò uno dei due poliziotti, fui verbalmente aggredito in maniera assai poco professionale, veemente ed intimidatoria. Non mi fu lasciato modo di spiegare cosa stavo facendo, nonostante l’auto che guidavo recasse non solo i dispositivi di segnalazione accesi ma anche, evidente, la scritta “trasporto organi”. Cercai di affrontare con calma la situazione, spiegando bene cosa stavo facendo, dove andassi e per quale motivo, mostrando anche il tesserino ed il foglio di servizio che riportava tutti i dati del trasporto in essere. Mi fu chiesto, in malo modo, di aprire il portellone posteriore e di mostrare cosa trasportavo, quando avevo già cercato di spiegare a voce, e mostrato il foglio, che diceva chiaramente che stavo andando a prendere del materiale biologico per analisi. Il poliziotto che mi trovavo davanti continuava ad urlare contro di me, dicendo che non sarei potuto andare da nessuna parte e che dovevo consegnare la patente ed il libretto. A quel punto feci ciò che era stato richiesto e chiamai subito la nostra centrale operativa, che fra l’altro continuava in diretta a sentire le ingiustificate grida del poliziotto che diceva che, secondo lui, stavo raccontando un sacco di sciocchezze (ho addolcito molto, perché i termini usati furono molto più, mi si permetta l’eufemismo, “coloriti”). Non sapendo più come fare a spiegare, in altri termini, la gravità della situazione al poliziotto se non fossi ripartito subito, cercai di parlare con la sua collega, che aveva mantenuto per tutto il tempo un atteggiamento distaccato ma sereno. Purtroppo non ci fu niente da fare perché il primo poliziotto continuava ad offendermi e a dirmi che non sarei ripartito. Nel frattempo la nostra sede operativa era intervenuta con la sede centrale della Polizia Stradale, competente per territorio e aveva risolto la situazione meglio possibile in quanto poco dopo, il poliziotto che mi aveva fermato era tornato dalla sua auto verso di me e mi ha reso i documenti urlandomi che per il momento sarei potuto ripartire, ma che la cosa non sarebbe finita lì. Un po’ preoccupato per le parole udite (anche perché i miei dati erano stati trascritti sul brogliaccio di bordo dell’auto della polizia), ripresi il mio viaggio verso l’ospedale e terminai poi la mia missione. Il giorno seguente un dirigente del Nucleo Operativo di Protezione Civile è andato a parlare con il dirigente della Polizia per capire cosa volessero esprimere le parole con le quali fui lasciato il giorno precedente e che avevano, nel tono e nel contenuto, tutta l’aria di essere una minaccia. In realtà il dirigente della Polizia tranquillizzò il nostro porgendo le sue scuse e da quel momento (sono passati ormai diversi anni) non ho più saputo niente. Per fortuna, in seguito a questo episodio, ho avuto modo di collaborare con tante altre persone delle forze dell’ordine, a cui va tutta la mia stima ed il mio rispetto.

Un altro ricordo che mi sovviene alla memoria è di un viaggio in America. Mi trovavo a Washington, una città che a me piace molto per i suoi viali larghi, i suoi monumenti e la preponderanza del bianco, che da un senso di pace e di pulito. Il giorno precedente all’appuntamento all’ospedale, dedicai un po’ di tempo a riordinare le carte e riconfermare l’orario di appuntamento e, nel pomeriggio, decisi di fare una visita al Pentagono, che non avevo mai visto prima e che era stato oggetto del tragico attacco terroristico del 2001. Presi la metropolitana ed in pochi minuti arrivai alla stazione “Pentagon”. Vidi molte divise militari che si avviavano nella stessa direzione e mi incamminai anch’io. Fatte poche decine di metri mi trovai davanti ad una grande porta con serratura elettronica, custodita da due guardie armate. Chiesi loro come potevo fare per visitare il Pentagono; di risposta, i due militari, mi chiesero chi fossi e perché fossi interessato a quella visita, cosa ci facevo lì e per quali ragioni mi trovavo negli Stati Uniti; infine mi chiesero i documenti. In un breve scambio di battute risposi alle loro domande e spiegai che la mia visita odierna era finalizzata a puri scopi turistici; i due sorrisero e mi dissero che l’accesso al Pentagono era permesso solo a chi lavorava nella struttura ed era interdetto agli estranei. Tornai verso l’albergo, un po’ rattristato di non aver potuto visitare e fotografare quel luogo. Il mattino successivo, per recarmi a Falls Church, dove si trovava l’ospedale, presi nuovamente la metropolitana e da lì, secondo le indicazioni ricevute, avrei dovuto proseguire con il “free shuttle”, un autobus che l’ospedale metteva a disposizione per il collegamento da e per la stazione della metropolitana. Una volta sceso dalla metropolitana mi ritrovai solo in un androne. Uscii all’esterno dove non trovai né autobus, né indicazioni di sorta, né alcuna persona cui poter chiedere delucidazioni. Rientrai all’interno della stazione della metropolitana e l’unica persona che vidi fu un dipendente, alto due metri e molto grosso, all’interno di una stanza a vetri. Bussai e chiesi se mi poteva indicare come raggiungere l’ospedale. Quest’uomo mi si avvicinò e, in maniera molto ravvicinata, guardandomi dall’alto dei suoi circa due metri di altezza, mi disse in maniera molto cruda “no!”. Certo rimasi alquanto male oltreché sorpreso; pensai che quelli non erano i miei giorni più fortunati. Mi allontanai subito. Uscii di nuovo nell’area esterna e sopraggiunse l’autobus. Il mio viaggio proseguiva… la parte più importante doveva ancora esse svolta!

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