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Alessandro M.

Faccio il volontario nel Nucleo Operativo di Protezione Civile da ormai molti anni e, nonostante che per la mia età possa esse considerato ancora abbastanza giovane, sono visto un po’ come il “veterano” dell’associazione. Ho avuto infatti la fortuna di essere tra i primi a intraprendere il cammino di questa esperienza di volontariato e veder crescere e migliorare le attività svolte, anche attraverso il mio personale contributo. Sono molto fiero di questa esperienza, anche se all’inizio è stata dura; eravamo pochi e ci guidava soltanto l’entusiasmo. Inoltre ho dovuto affrontare anche le mie paure personali perché non è stato facile per esempio, nonostante la formazione ed il supporto ricevuti, riuscire ad entrare in una sala operatoria, io che avevo sempre avuto un senso di nausea alla sola vista del sangue.

Faccio il volontario nel Nucleo Operativo di Protezione Civile da ormai molti anni e, nonostante che per la mia età possa esse considerato ancora abbastanza giovane, sono visto un po’ come il “veterano” dell’associazione. Ho avuto infatti la fortuna di essere tra i primi a intraprendere il cammino di questa esperienza di volontariato e veder crescere e migliorare le attività svolte, anche attraverso il mio personale contributo. Sono molto fiero di questa esperienza, anche se all’inizio è stata dura; eravamo pochi e ci guidava soltanto l’entusiasmo. Inoltre ho dovuto affrontare anche le mie paure personali perché non è stato facile per esempio, nonostante la formazione ed il supporto ricevuti, riuscire ad entrare in una sala operatoria, io che avevo sempre avuto un senso di nausea alla sola vista del sangue.

Negli anni ho maturato la consapevolezza che aiutare il prossimo faccia stare meglio anche noi stessi, perché il nostro contributo a portare un po’ di serenità a chi è stato meno fortunato, fa sì che possiamo vivere una società migliore, in cui ognuno fornisce un po’ di altruismo e riceve un po’ di gioia.

Sono state veramente tante le cose successe in questi anni, ma quella che sicuramente non dimenticherò mai nella vita e che spesso racconto anche agli amici è di quella volta in Francia…

Eravamo stati incaricati di portare del midollo osseo da Lione a Vicenza e decidemmo (fatte le opportune considerazioni sulla distanza e sul tempo necessario per percorrerla) che il mezzo più idoneo per svolgere la missione fosse una delle nostre macchine di servizio, equipaggiata con sirena e lampeggiatore blu. Il giorno stabilito partimmo in due con l’Alfa 166: io e Paolo. Fu un viaggio di andata piuttosto tranquillo e tutto si svolse per il meglio. Giunti a Lione prendemmo contatti con l’ospedale per concordare gli orari di ritiro del midollo osseo. In realtà della prima parte del viaggio e della breve permanenza a Lione ho solo ricordi soffusi… sono passati ormai tanti anni... La parte che ricordo con estrema precisione, come fosse successo ieri, è una parte del viaggio di ritorno.

Era tarda mattinata e con Paolo andammo all’appuntamento fissato, con un po’ d’anticipo. Aspettammo un bel po’ prima di poter ricevere le sacche contenenti il midollo osseo, in quanto ci fu un ritardo dovuto a problematiche (così ci fu detto) relative alla raccolta di cellule staminali del donatore ottenute attraverso un procedimento che si chiama aferesi. Nel frattempo espletammo le pratiche burocratiche e, dopo un'altra oretta di attesa, finalmente ci fu consegnato il materiale. Partimmo in tutta fretta, direzione ospedale di Vicenza. Ci guidava il mitico navigatore gps montato a bordo; dico mitico perché all’epoca non erano per niente diffusi come oggi e averlo come guida era una sicurezza ulteriore, oltre che un piacere poterlo ammirare all’opera. Fatta qualche decina di chilometri e lasciato il centro abitato di Lione, purtroppo trovammo un’interruzione sull’autostrada dovuta ad un cantiere di lavori e fummo costretti a uscire e percorrere delle stradine che anche il navigatore non conosceva tutte. Questo inconveniente, sommato al ritardo iniziale, ci fece rallentare ulteriormente sulla tabella di marcia. Cominciammo un po’ a preoccuparci per il paziente che doveva ricevere il trapianto, a causa della mortalità cellulare che è direttamente proporzionale al passare del tempo. Rientrati finalmente in autostrada decidemmo di accelerare e, per agevolare la nostra avanzata verso la meta, applicammo ed accendemmo il lampeggiatore blu di cui era dotato il nostro mezzo. La strada correva velocissima ma eravamo tranquilli perché tutto andava bene e procedeva per il meglio: stavamo recuperando il ritardo. La parte più inquietante ed interessante del racconto arrivò poco dopo, giunti in prossimità del casello autostradale; ci trovammo di fronte ad una scena da film. C’erano due macchine della polizia francese che ci stavano aspettando (questo lo capimmo dopo che ci intimarono l’alt) e tre poliziotti armati, uno sulla destra, uno sulla sinistra ed uno al centro proprio di fronte a noi. Uno dei tre teneva la mano sulla fondina della pistola mentre un altro, il più alto, portava un fucile a pompa in spalla. Ci fecero segno di accostare e di fermarci, con un atteggiamento che non lasciava adito a dubbi su quali fossero state le loro intenzioni in caso contrario. Chiaramente ubbidimmo. Paolo si rivolse a me raccomandandosi di stare fermo, di non fare movimenti bruschi e di tenere le mani bene in vista; io non ebbi nemmeno la forza d’animo di rispondergli. Sembrava una scena da film americano e, nonostante il fatto che adesso la racconti con molta disinvoltura, in quel momento ci prendemmo un bello spavento. Scendemmo lentamente dalla macchina e, dopo qualche attimo ancora di tensione, cercammo di capire il perché di tutto ciò. Purtroppo il nostro francese non era dei migliori e nessuno dei poliziotti parlava una parola d’inglese, con cui avevamo comunicato molto bene in ospedale, nè tantomeno d’italiano. Capimmo che il problema era la nostra velocità, che aveva toccato i 200 chilometri orari, e il fatto di tenere acceso un lampeggiante blu su una macchina italiana in territorio francese. Ci fecero segno di aprire la bauliera e inoltre vollero vedere cosa trasportavamo. Mostrammo il contenitore con le sacche di sangue midollare e i documenti relativi al trasporto, compresa la documentazione dell’ospedale di Lione, che era scritta anche in francese ed attestava chiaramente il carattere di urgenza della nostra missione, legata alla tutele della vita di una persona. A quel punto le acque si calmarono un po’ e tutti fummo meno tesi, poliziotti compresi. Dall’espressione del loro volto non traspariva totale convinzione però, considerata anche la documentazione e l’aver potuto vedere il materiale biologico, furono evidentemente motivazioni sufficienti a lasciarci ripartire, chiedendoci però di spengere il lampeggiatore e di andare un po’ più piano; comunque ci assicurarono che avrebbero provveduto ad informare i colleghi di pattuglia, nel restante tratto del territorio francese, del nostro passaggio e che avevano già visionato la documentazione attestante l’urgenza, suggerendoci altresì, qualora ci fosse stato traffico intenso, di utilizzare solo la sirena. Ripartimmo senza lampeggiante e con una velocità più moderata. Per qualche decina di chilometri ci fu, in auto, un silenzio assoluto; poi tutto passò e ci rendemmo conto di aver avuto un’esperienza forte da non ripetere. Analizzando l’accaduto nel consueto debriefing, abbiamo valutato che questo è servito anche a farci capire che, nonostante la delicatezza e l’urgenza delle nostre missioni, è sempre opportuno non lasciarsi prendere dall’entusiasmo, seppur dettato dalla volontà di far bene, ma di condividere sempre le decisioni.

In ogni caso il midollo osseo fu consegnato in orario e tutti i nostri pensieri andarono al paziente.

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